I misteri di via D’Amelio
Una strana sequenza di contatti telefonici che hanno fatto dire al super consulente informatico delle procure di mezza italia e di quelle distrettuali antimafia in particolare, l’ex poliziotto Gioacchino Genchi, che c’è «puzza» di servizi segreti «deviati» dietro la strage di via D’Amelio a Palermo, del 19 luglio 1992. E ancora una volta c’entrano Trapani ed i suoi «segreti», le commistioni tra mafia e servizi segreti «infedeli».
Nei giorni in cui si era già deciso di collocare l’autobomba per uccidere Borsellino e la sua scorta, un cellulare clonato era usato da mafiosi castellammaresi, e da quel numero partivano continuamente telefonate dirette ad un personaggio, rimasto senza volto e che alloggiava nell’hotel super lussuoso di «Villa Igea» di Palermo. Un’altra delle telefonate raggiunse invece casa di Gioacchino Calabrò, in assoluto l’uomo più potente della mafia castellammarese e protagonista delle stragi, da Pizzolungo (1985) a Roma, Milano e Firenze (1993) sino al mancato attentato all’Olimpico di Roma nello stesso anno, quando un’auto imbottita di tritolo avrebbe dovuto fare dei poliziotti, in servizio all’impianto sportivo per la partita domenicale, «carne da macello».
Quel cellulare servì anche a dare gli appuntamenti ai componenti delle cosche trapanesi per far fuori Vincenzo Milazzo, capo mafia di Alcamo, e la sua compagna, Antonella Bonomo. Di quel duplice delitto ad un certo punto anni dopo parlò un pentito, Gioacchino La Barbera. Fu lui ad introdurre scenari particolari. L’uccisione di Vincenzo Milazzo, e della sua compagna, Antonella Bonomo, i primi di luglio del 1992, con i sicari che non si fermarono dallo strangolare la donna sebbene fosse incinta, non era evitabile quella morte: «Furono uccisi e anche la donna perché avevamo paura che potesse raccontare quanto di più riservato gli aveva potuto confidare Vincenzo Milazzo. Lei avrebbe avuto un parente nei servizi segreti». E dunque il capitolo dell’intelligence italiana che torna sempre.
C’è un particolare da cogliere in quel periodo. Ed è quello della vertiginosa ascesa compiuta proprio allora dal boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro, oggi latitante, ricercato dal 1993; presente sulla scena di quei delitti e nei mesi a venire sarebbe diventato il «regista» delle stragi di Roma, Milano e Firenze, perseguendo una idea precisa, «destabilizzare lo Stato cercando di costringere le istituzioni a scendere a patti». Al processo per la strage Borsellino, il pentito Giovan Battista Ferrante ha svelato proprio un dialogo tra Riina e Messina Denaro: «I massoni vosiru ca si fici chistu», i massoni hanno voluto fare questo questo, cioè le stragi. Così secondo i racconti di Ferrante questo fu quello che disse Riina al suo «pupillo» capo mafia belicino, dimostrando che i massoni li conosceva bene, per averli spesso incontrati nelle logge coperte del trapanese.
Del cellulare «clonato» che salta fuori dai tabulati ricostruiti da Gioacchino Genchi relativamente ai giorni della strage di via D’Amelio, si stanno interessando gli investigatori della procura di Caltanissetta che hanno riaperto le indagini. Il telefonino risulta usato dai capimafia di Castellammare del Golfo, è intestato a una donna, Antonietta Castellone, funziona dal 21 ottobre ’91 al gennaio ’93, Genchi «conta» circa 3 mila contatti fra la Sicilia e gli Stati Uniti, la Germania, Malta e Slovenia, verrà trovato il 15 gennaio ’93 in possesso a quattro latitanti mafiosi alcamesi scovati dai carabinieri e cioè Antonino Alcamo, Vincenzo Melodia, Vito Orazio Diliberto e Pietro Interdonato. Nel luglio del 1992 il cellulare registra un intenso traffico che si ferma nel pomeriggio di quella domenica di 17 anni addietro, mentre l’autobomba esplodeva in via D’Amelio.
Ovviamente l’intestataria di quel cellulare «clonato» dai mafiosi non sapeva nulla. Altri sanno, quelli che dopo la strage del 19 luglio 1992 avrebbero chiamato un pregiudicato romano, o ancora più volte il numero di una utenza statunitense. Un cellulare che sarebbe servito a che a far tenere i contatti tra i mafiosi mazaresi e l’allora super ricercato narcotrafficante trapanese Vito Bigione, arrestato estradato due anni addietro dal paese africano della Namibia dove era diventato armatore di pescherecci e gestore di ristoranti, occupandosi sempre di droga.
Le indagini su di un traffico di droga tra la Colombia e la Sicilia fecero a suo tempo scoprire contatti tra Bigione e un agente dei servizi segreti che fu scoperto a sponsorizzarlo perchè Bigione potesse diventare console accreditato in Namibia, nel frattempo Bigione pare riusciva a muoversi con un falso passaporto diplomatico. Passaporti falsi che nelle indagini di mafia continuano a saltare fuori.
Gli ultimi sono quelli dell’operazione “Golem”, quella che ha scovato i favoreggiatori del latitante Matteo Messina Denaro. A realizzare questi documenti un romano, Domenico Nardo, Messina denaro avrebbe viaggiato all’estero grazie ai documenti falsi da lui preparati.
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