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Uomo morde cane? Non fa notizia se c’è di mezzo la camorra

Di Alberto Spampinato* il . L'analisi

“Uomo morde cane”,
ci hanno insegnato, fa sempre notizia, si impone nei menabò e
buca il video. Ma non è sempre vero. Non è vero, ad esempio
(e sarebbe interessante scoprire perché) quando l’uomo è un cronista
di camorra testardo e coraggioso, di quelli che non si fanno intimidire,
e il cane morsicato è un camorrista condannato in tribunale per aver
minacciato il cronista che metteva in luce le malefatte del suo clan.
In questo caso la notizia fatica a trovare l’attenzione che merita.
Va solo sulle pagine locali, e con titoli che non mettono in evidenza
l’avvenimento insolito nel quale trionfa il soggetto che, nel copione
classico, sarebbe destinato a soccombere. S’è visto sfogliando i giornali
di venerdì 11 luglio. Eppure la notizia era proprio del genere uomo
morde cane. 

Il giorno prima,
fatto senza precedenti, il Tribunale di Napoli, undicesima sezione penale,
aveva condannato due camorristi a oltre due anni di reclusione ciascuno
e a un risarcimento di migliaia di euro ritenendoli responsabili di
avere minacciato ripetutamente il giornalista Arnaldo Capezzuto per
convincerlo a non indicare nei suoi articoli sul giornale “Napolipiù”,
quando ancora si stampava, gli elementi emersi a carico di Salvatore
Giuliano (poi riconosciuto colpevole anche in base a quegli elementi)
per l’omicidio di Annalisa Durante, uccisa a sedici anni il 27 aprile
2004 in un vicolo di Forcella da un proiettile sparato da giovani camorristi
che giocavano con le armi.   Capezzuto fu minacciato la prima
volta in un corridoio del Tribunale di Napoli, il 27 maggio 2005, durante
il processo per quell’omicidio della “criatura” che ancora
emoziona tutta Napoli e ha sconvolto il quartiere di Forcella. “Ma
che c… scrivi? Lascia perdere – gli dissero con l’aria di dargli un
consiglio – se continui così chissà che brutta fine che potresti fare!
Sai com’è? Le disgrazie capitano all’improvviso, e poi non puoi fare
più niente”. Ma il minacciato non si fece intimidire. Denunciò
le minacce e continuò imperterrito a scrivere. Allora gli mandarono
altri “consigli” con una lettera minatoria anonima, o meglio
firmata con una fila di teste mozzate, accusandolo di fare parte, insieme
al padre della ragazza uccisa e al prete anticamorra don Luigi Merola,
di un “terzetto di esperti della camurria” e promettendogli
di fargli fare la fine di “Giancarlo Siano” (sic). Lettere
analoghe furono recapitarte agli altri due del “terzetto”,
che reagirono allo stesso modo.  

A me pare che gli ingredienti
del caso “uomo morde cane” ci siano tutti. A Napoli, e non
solo a Napoli, non è frequente, anzi diciamo che è piuttosto
raro, che un cronista minacciato dalla criminalità organizzata
invece di desistere per paura, com’è umano, com’è comprensibile ma
non deontologicamente corretto, reagisca e che ottenga soddisfazione
e giustizia. No, non è frequente, ma per nostra fortuna non è l’unico
caso, è accaduto altre volte e quando accade merita, io credo, la massima
considerazione. Inoltre, non so quante volte in  Italia sia accaduto
che in un caso simile l’Ordine dei Giornalisti si sia rimboccato le
maniche con tanto impegno, si sia costituito parte civile e abbia trovato
l’appoggio e l’impegno solidale dell’Ordine degli avvocati. Né mi pare
frequente il caso di un tribunale che, dando ragione al minacciato,
infliggendo pene severe, concedendo una previsionale di dieci più venticinquemila
euro (che Capezzuto e il presidente dell’Ordine dei Giornalisti Ottavio
Lucarelli hanno già destinato a opere sociali nel quartiere di Forcella)
scriva il lieto fine a una così bella storia di impegno e di coraggio
civile, di ribellione ad una delle imposizioni più odiose del sistema
mafioso, quella che fa vincere la violenza impiegata per tappare la
bocca a chi vuole testimoniare la verità.  

Ebbene, come
spiegare che, con tutto questo, la notizia della vittoria del coraggioso
Capezzuto e della scelta civile dell’Ordine dei Giornalisti della Campania
non abbia raggiunto l’attenzione che merita e non sia arrivata sulle
pagine nazionali dei grandi giornali? Non si spiega senza dare la colpa
ai giornalisti, perché sono loro che decidono impaginazione e importanza
delle notizie, sono loro che hanno lasciato al coraggioso presidente
dell’Ordine l’onere pressoché esclusivo di rappresentare la categoria
in seno al processo. Perché? Perché non riescono a considerare Arnaldo
Capezzuto fino in fondo uno di loro, allo stesso modo con cui faticano
a considerare giornalisti con le carte in regola, bravi giornalisti
Roberto Saviano, Pino Maniaci, Lirio Abbate, Rosaria Capacchione, Enzo
Palmesano, per fare qualche nome, e tanti altri che per raccontare verità
difficili, notizie scomode, , anche a costo di inimicarsi le persone
coinvolte cercano notizie sul campo, spulciano con cura i documenti,
svolgono indagini in proprio, consultano  fonti non ufficiali,
o semplicemente ricompongono in un quadro unitario i frammenti di informazioni
disponibili o offrono analisi originali. Non è giornalismo, questo?
Il caso Capezzuto, in questo senso, ripropone un problema di identità
della professione giornalistica. E’ la querelle riproposta schematicamente
dal film su Giancarlo Siani “Fortàpasc”, con la distinzione fra
giornalisti-impiegati e giornalisti –giornalisti che ha fatto tanto
discutere a Napoli. La controversia non si risolve con la forza dei
numeri. Se i Capezzuto, Maniaci, Capacchione sono una minoranza non
è detto che per questo non abbiano ragione proprio loro. Bisognerebbe
discuterne, serenamente, e non chiudere il caso oscurandolo e neppure
negando la solidarietà attiva a chi la merita e ne ha bisogno come
di uno scudo protettivo.  

*Alberto
Spampinato

direttore
di Ossigeno, osservatorio Fnsi-Ordine dei Giornalisti sui cronisti
minacciati e sulle notizie oscurate con la violenza

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