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L’eterna guerra alla giustizia

Gian Carlo Caselli il . Giustizia, Istituzioni

imageToghe e politica. Dalle pensate di B. a oggi. Piovono sui magistrati calunnie varie e insulti, cui seguono accuse basate su verità rovesciate. Un attacco organizzato: e il bersaglio resta sempre la giurisdizione indipendente. 

La storia dei rapporti tra politica e magistratura sembra un romanzo. Talora avvincente, più spesso desolante. Una trama molto complessa con due varianti: delega e conflitto.

Spetta alla politica – e soltanto ad essa – operare le scelte finalizzate al buon governo. Ma ci sono problemi che la politica italiana non vuole o non sa affrontare. In questi 25 anni molti di questi problemi sono stati “delegati” (scaricati sulle spalle) della magistratura e delle forze dell’ordine. E’ accaduto per la mafia; per il terrorismo (almeno nella fase iniziale); per lo stragismo (con relativi depistaggi); per la sicurezza sui posti di lavoro; per la tutela dell’ambiente e della salute (anche sul versante agroalimentare); per l’evasione fiscale; per la bioetica e per la corruzione (la svolta nel 2019 con la Spazzacorrotti potrebbe subire un arretramento nel post Covid-19, se prevarranno le opzioni basate sulla “snellezza del fare” contro le “gabbie d’acciaio burocratiche”).

Deleghe a raffica, dunque. Ma sempre con un limite preciso mai esplicitato: una specie di “asticella” da non oltrepassare. Finchè si toccano soggetti deboli abituati a subire, zero polemiche. Ma se si oltrepassa l’asticella e si controllano anche le deviazioni dei poteri pubblici e privati, questi reagiscono: innescando l’altra variante, il conflitto.

Con il conflitto piovono sui magistrati calunnie e insulti volgari (fino al leggiadro “antropologicamente diversi dal resto della razza umana”), cui seguono accuse basate su verità rovesciate: non delega ma supplenza arbitraria, invasione di campo; golpe dei giudici; le inchieste che danno fastidio sono teoremi. Un attacco organizzato che si sublima fastanticando di giustizialismo e politicizzazione. Il bersaglio grosso è la giurisdizione, quando – pur con i suoi limiti e i suoi errori – dimostri di voler operare in maniera indipendente. In questo modo prende piede il malvezzo di valutare gli interventi giudiziari non secondo correttezza e rigore ma in base all’utilità per sé e per la propria cordata. Mentre domina il paradosso dell’inefficenza efficiente, funzionale cioè ad un disegno che mira (mortificando la magistratura) a ridurre se non impedire i controlli su determinati interessi.

Ancora: inefficienza significa meno credibilità della magistratura. E alla fine della storia nessun cittadino che non sia pazzo si mobiliterà per chi non sa rendere il servizio per cui è pagato coi soldi pubblici. E il cerchio si chiude.

Queste linee di tendenza (che attraversano – sia pure con cospicue differenze – l’intero schieramento politico) assumono cadenze parossistiche con i governi di Silvio Berlusconi. Ha scritto Camilleri di una “vera e propria guerra alla Giustizia mossa su molteplici fronti e adoperando tutti i mezzi leciti e soprattutto illeciti”, fino “alle mine antiuomo delle dissennate proposte di legge tendenti sostanzialmente all’assoggettamento della Giustizia alla politica, o meglio all’interesse politico di una sola persona”. La stessa che, secondo lo storico Salvatore Lupo, nella campagna elettorale del 1994 lanciò un “assalto alla magistratura quando (questa) era sulla cresta dell’onda”, compiendo un’operazione “per il futuro”, come a dire che occorreva “che i magistrati non ci (fossero) più”.

Sterminato è l’elenco delle “pensate” del Cavaliere e del suo entourage: le leggi “ad personam” che hanno violato la regola fondamentale di buona fede legislativa; una sfilza di “scudi” che hanno consolidato le disuguaglianze; il corredo sistematico di campagne astiose, denunzie penale, ispezioni ministeriali e azioni disciplinari contro gli inquirenti. Fino ad una surreale vicenda “mai vista, nemmeno in Italia”, e cioè che “ben 315 parlamentari votassero e accreditassero la favola (favola anche per un bambino di sei anni)” di un premier “intervenuto a notte fonda alla Questura di Milano per evitare un incidente diplomatico con l’Egitto” (Giovanni Sartori, a proposito della ragazza marocchina fatta passare per nipote di Mubarak). Coronando con robuste manifestazioni di piazza davanti ai tribunali la gestione dei processi come momenti di scontro (per contestarne in radice la legittimità), mediante un impropria riedizione del “processo di rottura” praticato in Italia dalle Br.

Senza reali prospettive di riforma (sia del processo ormai in coma, sia del Csm: e dire che la degenerazione delle correnti era ben nota ancora prima del “caso Palamara”), la magistratura italiana ha finito per trovarsi in stato d’assedio: situazione scomoda che può indurre ad errori (ve ne sono stati) o a mortificare l’etica della responsabilità favorendo il conformismo burocratico. Obiettivo che anticipa la riduzione dell’indipendenza della magistratura nelle strategie di chi vuole controllare l’ordine giudiziario.

Un mantra di queste strategie è la separazione delle carriere fra giudici e pm che – si dice – esiste in tutti i paesi. Una verità deformata o parziale, nel senso che là dove vi sono alcune forme di separazione non si tratta mai di applicazioni drastiche e totalizzanti come si vuol far credere. E comunque si dimentica che interfaccia della separazione delle carriere è, sempre e dovunque, la possibilità che il potere esecutivo impartisca – per legge – ordini e direttive al pm, pilotando le indagini a suo piacimento. Per cui, separando le carriere, ci allineeremmo sì ad altri, ma verso il basso, compromettendo sensibilmente l’indipendenza della magistratura: con un pessimo servizio ai cittadini che perderebbero persino la speranza di una giustizia uguale per tutti.

Invece delle carriere dei magistrati si dovrebbero separare quelle tra magistrati e politici. E non mi riferisco soltanto al problema delle cosiddette “porte girevoli”. Il pensiero corre anche alle recenti cronache sulla vicenda del giudice Amedeo Franco, il quale – avendo firmato foglio per foglio una sentenza di condanna – incontra poi “vis à vis” il condannato (Silvio Berlusconi) e “ritratta” la condanna. Ciò sette anni fa, essendo il magistrato nel frattempo deceduto. Per cui, per risolvere l’anomalo caso non bastasse la zelante registrazione del colloquio riesumata in questi giorni, si potrebbe pensare ad un’inedita seduta spiritico-giudiziaria. Magari evocando anche lo Stevenson del famoso “strano caso”. Tanto per non farsi mancare nulla.

Fonte: Il Fatto Quotidiano 09/07/2020

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