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Falcone e quella notte al CSM/1

P. Filippi, R. Conti e C. Smuraglia * il . Giustizia, Mafie

falcone csmIntervista di Paola Filippi e Roberto Conti a Carlo Smuraglia

Il Presidente emerito della Corte costituzionale Gaetano Silvestri, già componente laico del CSM, in un suo recente saggio dedicato all’analisi delle non commendevoli vicende che attualmente agitano il mondo giudiziario (Notte e nebbia nella magistratura italiana, QG, 12 giugno 2020), ha osservato che la vicenda della mancata nomina di Giovanni Falcone alla funzione di Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo assume ancora oggi un valore emblematico rispetto alle difficoltà mostrate dal governo autonomo della magistratura sul tema della c.d. anzianità senza demerito degli aspiranti a ricoprire incarichi direttivi o semi-direttivi. Essa, a ben considerare, offre ulteriori e forse ancora maggiori punti di riflessione che riguardano da vicino il rapporto dei magistrati con le correnti, con l’opinione pubblica, la politica ed il CSM.

Giustizia Insieme intende tornare su quella vicenda per farne memoria, soprattutto a beneficio dei tanti che non vissero direttamente quella stagione ed il clima avvelenato che ne seguì, vuoi perché lontani da quella che viene considerata secondo un ben sperimentato stereotipo terra di mafia, vuoi perché non ancora entrati all’interno dell’ordine giudiziario.

Ciò ha inteso fare attraverso alcuni dei protagonisti che contribuirono direttamente a scrivere le note di quella notte del 19 gennaio 1998 consumata all’interno del plenum del CSM.

Carlo Smuraglia, Stefano Racheli, Marcello Maddalena e Vito D’Ambrosio, membri alcuni togati (D’Ambrosio, Racheli e Maddalena), alcuni laici (Smuraglia) del CSM che si occupò di quella  pratica, hanno accettato di rileggere quegli avvenimenti a distanza di oltre trentadue anni. Una rilettura certamente mediata, per un verso, dall’esperienza maturata dai protagonisti nel corso degli anni passati al Consiglio Superiore  della magistratura e, per altro verso, da quanto emerso rispetto alla gestione del goberno autonomo in tempi recenti.

La drammaticità di quella vicenda sembra dunque legarsi a doppia mandata all’attuale contesto storico che sta attraversando la magistratura italiana.

I contributi che seguono, nella prospettiva che ha animato la Rivista non intendono, dunque, offrire verità ma semmai stimolare la riflessione, aprire gli occhi ai tanti che non vissero quell’episodio e quell’epoca assolutamente straordinaria per tutto il Paese.

La spaccatura che si profilò all’interno dei gruppi presenti in Consiglio e delle scelte che i singoli consiglieri ebbero ad esprimere votando a favore o contro la proposta di nomina del Consigliere Istruttore Antonino Meli pongono, in definitiva, interrogativi più che mai attuali, occorrendo riflettere su quanto nelle determinazioni assunte dal singolo consigliere del CSM debba essere mutuato dall’appartenenza al gruppo e quanto, invece, debba liberamente ed autonomamente attingere al foro interno del consigliere, allentando il vincolo “culturale” con la corrente quando si tratta di adottare decisioni che riguardano gli uffici giudiziari ed i loro dirigenti.

Gli intervistati hanno mostrato tutti in dose elevata la capacità di approfondire in modo costruttivo  quell’episodio e per questo va a loro un particolare senso di gratitudine.

In calce ad ognuna delle quattro interviste che saranno pubblicate in successione abbiamo riportato, oltre al verbale consiliare del 19 gennaio 1988 tratto dalla pubblicazione che il CSM ha dedicato alla memoria di Falcone, alcuni documenti storici che Giovanni Paparcuri, testimone vivente delle stragi mafiose e custode delle memorie raccolte nel museo “Falcone Borsellino” ha gentilmente messo a disposizione della Rivista. Documenti che offrono, in cifra, l’immagine dell’uomo e del magistrato Falcone e del contesto nel quale Egli operò.

La prima intervista è del Prof.Carlo Smuraglia, già senatore e presidente della commissione Lavoro del Senato, membro laico del CSM e Presidente emerito Nazionale dell’ANPI.

1) Il contesto ed il clima  nel quale si discusse il conferimento dell’incarico di Consigliere istruttore del Tribunale di Palermo nel gennaio 1988 ed il suo prodromo – la nomina di Paolo Borsellino a Procuratore della Repubblica di Marsala. Cosa ricorda?

2) Media e partiti politici prima, durante e dopo il voto consiliare: quale peso giocarono? Quali furono le posizioni dei consiglieri laici? Quali quelli delle correnti? E della Presidenza della Repubblica con i suoi consiglieri giuridici? Ebbe un peso l’opinione pubblica?

3) La composizione del Consiglio superiore della magistratura come influì sulla scelta?

4) Quali furono le ragioni espresse del voto e quali gli schieramenti che si manifestarono nel corso del Plenum. Ricorda qualche episodio in particolare che possa risultare, oggi, significativo?

5) Quale ruolo giocò il parametro dell’attitudine ovvero della specializzazione nell’attività di contrasto  alla criminalità mafiosa nel giudizio di comparazione tra i magistrati che concorrevano alla direzione dell’ufficio istruzione (e)  quanto il parametro dell’anzianità? Quali erano le regole della circolare dell’epoca sul conferimento degli incarichi direttivi, quale lo spazio rimesso alla discrezionalità del Consiglio?

6) Si assistette ad una votazione nella quale i componenti delle correnti non votarono in maniera compatta. Quale significato si sente di attribuire a questo fatto storico? Ebbero, in altri termini, un peso rilevante le convinzioni personali dei consiglieri o prevalsero motivazioni espressive comunque, nella diversità delle opinioni, della normale dialettica dell’esercizio del governo autonomo  della magistratura?

7) Anche in quel caso si ventilò che l’adesione all’una o all’altra proposta avrebbe determinato uno scostamento dalla disciplina regolamentare. Allora come oggi si evocarono precedenti scelte per legittimare le rispettive posizioni.  Cosa è cambiato negli anni successivi rispetto al tema delle scelte dei posti direttivi e semidirettivi?

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intervista7LugLe risposte del Prof. Carlo Smuraglia 

Ritengo utile partire un po’ da lontano, con una risposta unica alle varie domande, per ragioni di chiarezza e completezza di ricordi.

Rocco Chinnici, magistrato eccellente e personalità spiccata, che dirigeva l’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo ed aveva introdotto modalità organizzative dell’ufficio profondamente innovative, cercando di farlo funzionare in modo collegiale, chiamò a far parte dell’ufficio stesso Giovanni Falcone e poco dopo Paolo Borsellino.

Si avviò così una collaborazione preziosa ed un impegno veramente efficace per affrontare la criminalità mafiosa, che in quegli anni si era distinta non solo per delitti atroci, ma anche per aver ucciso diversi magistrati ed uomini dello Stato. Fu quindi possibile, a Giovanni Falcone, applicare in concreto le sue “teorie” sull’impegno giudiziario nella delicatissima materia della criminalità organizzata. Avviò così un’istruttoria di grande respiro applicando in concreto la sua convinzione di sempre, e cioè che la mafia dovesse essere perseguita, non solo sul terreno e con gli strumenti tradizionali, ma anche e soprattutto con indagini di carattere patrimoniale. Falcone partiva dal principio che se le persone possono far disperdere le proprie tracce, il denaro finisce, invece, per lasciare qualche segno del suo passaggio e dei suoi movimenti. Fu di Chinnici l’idea di dar vita a quello che poi si chiamerà “pool”, costruendo un metodo di lavoro che impegnasse al tempo stesso diversi magistrati, strettamente collegati tra loro, e tutti referenti al capo dell’ufficio.

Fu dunque impostato un lavoro molto efficace e si raggiunsero risultati un tempo impensabili. Questi successi, davvero importanti, determinarono anche una forte esposizione dei Magistrati impegnati nel pool, ma contribuirono a realizzare rapporti con altri uffici e perfino con Paesi stranieri. In particolare Falcone ebbe modo di contattare esponenti della giustizia americana, di ampliare, crescere e espandere la sua esperienza e di conquistarsi una fama di eccellente investigatore e teorico, anche a livello internazionale.

Il pool, nella prima formulazione composta da Falcone e Borsellino e successivamente da Di Lello, svolse un lavoro importante, dimostrando la fondatezza dell’intuizione originaria di Chinnici, prontamente seguita e portata a ulteriori conseguenze, da Falcone ed altri. Ma Chinnici fu barbaramente ucciso il 29 luglio 1983, e fu sostituito da un altro eccellente magistrato (Caponnetto) che portò avanti e sviluppò ulteriormente il sistema di investigazione che era stato avviato e che fu essenziale per rendere possibile quello che poi fu definito “il maxiprocesso”, che si svolse fra non poche difficoltà, ma si concluse per la prima volta con molte condanne, che poi furono confermate sia in Corte d’appello che in Cassazione. Falcone era stato l’estensore della voluminosa sentenza di rinvio a giudizio, per completare la quale dovette lavorare anche nel carcere dell’Asinara, assieme al collega che aveva svolto il ruolo di Pubblico Ministero.

Nel frattempo, però, Caponnetto fu costretto ad abbandonare il servizio per ragioni di salute e tornare alla sua Firenze, ponendo il problema della sua successione. Problema tutt’altro che semplice, essendo evidente che si trattava non solo di sostituire un magistrato eccellente, ma anche di continuare la sua opera sul piano organizzativo, conseguendo – col pool – ulteriori e ancor più significativi risultati. Fu chiaro a tutti che di questo si sarebbe trattato, e non della semplice comparazione fra magistrati col criterio dell’anzianità, criterio sempre importante anche per evitare scelte influenzate da altri fattori, ma da verificare assieme alle qualità ed alle esperienze dei concorrenti, soprattutto quando – come in questo caso – si trattava di portare avanti esperienze e sperimentazioni di grande rilievo, già dimostratesi di grandissima efficacia.

Debbo dire, per quanto io mi ricordi, che questo dato apparve subito chiaro a tutti i componenti del C.S.M. sia a quelli eletti dai magistrati, sia a quelli eletti dal Parlamento. Di ciò, si discusse ampiamente, al di fuori delle sedute, come normalmente accade per le questioni di particolare importanza. Vi era chi sosteneva che doveva sempre prevalere il criterio dell’anzianità e chi invece riteneva che, pur essendo, quello dell’anzianità, un criterio importante, bisognava tener conto anche dell’esperienza e delle qualità tecniche e personali dei concorrenti, soprattutto quando si trattava della dirigenza di uffici destinati ad operare in zone molto difficili e su processi di notevole impegno. In questi confronti, informali, non entravano né criteri politici, né criteri correntizi, anche se poi chiaramente le correnti ne discussero al loro interno in modo approfondito e vario, tanto è vero che nessuna di esse votò poi, nel momento conclusivo, in modo compatto. Non ci fu, né ci poteva essere, una discussione analoga, se non sul piano strettamente personale, nell’ambito dei cosiddetti “laici”, come risulta evidente dal modo con cui ognuno di essi si espresse nella votazione conclusiva.

Sia ben chiaro, con questo, che non intendo dire che non vi siano state anche espressioni correntizie o politiche, ma che alla fine prevalsero le opinioni personali, di cui alcune certamente ispirate o da opportunismo o da ragioni diverse da quelle che poi furono espresse nel corso della famosa seduta notturna del C.S.M. Devo dire che ci furono anche dichiarazioni molto singolari, come è stato notato da studiosi e scrittori che si sono occupati a fondo del tema. Io ho un ricordo molto nitido, per fare un esempio, di un intervento quasi integralmente celebrativo delle qualità di Falcone, che poi si concluse con un voto a lui contrario; tant’è che fummo in molti a parlare di quell’incredibile discorso, come di una sorta di spiacevole “commemorazione”.

I candidati “favoriti” erano due; Antonio Meli e Giovanni Falcone. Due candidati profondamente diversi, non solo per anzianità di servizio (Meli era assai più anziano), ma soprattutto per i meriti acquisiti nel lavoro. A qualunque osservatore, anche solo un po’ attento, la differenza appariva enorme sul piano qualitativo, e tale da rendere evidente che la scelta sarebbe stata decisiva per le sorti del pool (nel frattempo arricchitosi di altri magistrati di qualità).

Nel gennaio del 1988, il Consiglio Superiore della Magistratura affrontò il tema, partendo dalla relazione della Commissione competente, che si era espressa, a maggioranza, a favore di Meli.

Correttamente, il Vicepresidente Mirabelli introdusse sottolineando l’importanza della discussione e ricordando che la questione avrebbe dovuto essere affrontata e risolta sulla base di tutti i criteri disponibili, e dunque l’anzianità, e il “merito”.

La discussione fu molto ampia e finì per occupare anche un’intera notte (il voto definitivo fu espresso nelle prime ore del mattino) e fu seguita con molto interesse dalla stampa, che si rese ben conto dell’importanza della posta in gioco. Vi fu, dunque, notevole attesa anche dall’esterno del Palazzo dei Marescialli, essendo divenuto chiaro, credo a tutti, che non si trattava solo di una delle tante scelte che il C.S.M. è tenuto a fare, ma qualcosa di assai più importante, ben oltre il piano giudiziario.

C’è un libro, di Enrico Deaglio (Patria, 1978-2008- Il Saggiatore. 2009) che riporta, sia pure a grandi linee, lo svolgimento della discussione nelle sedute pubbliche del C.S.M., riassumendo anche il contenuto di alcuni interventi. Ne emergono la disparità di vedute e la profonda divisione del C.S.M., non solo nel suo complesso, ma anche all’interno delle singole correnti, e le evidenti differenziazioni di principio fra i “laici”.

Ma, come ho già accennato, non tutti gli interventi furono ispirati alla necessaria consapevolezza e sincerità.

Una seduta singolare, dunque, molto tesa, molto complessa, anche nelle divisioni, e tutta da “leggere” con attenzione, per scoprire i reali intenti di alcuni interventi.

Il risultato, come ho detto, favorevole a Meli, fu determinato, insomma, da un mix di convinzioni legittime (anche se, a mio avviso, sbagliate), di ragioni correntizie, di scelte relative alle modalità di impegno contro le mafie, ed in alcuni casi di basse ragioni di invidia nei confronti di Falcone. Non va dimenticato, al riguardo, che Falcone è stato, prima e dopo quella vicenda, vittima anche di attacchi inaccettabili da parte di non poche personalità meschine, che combattevano l’esposizione di Falcone, dimenticando la pericolosità e l’impegno che hanno contraddistinto tutto il suo operato. Basti pensare alla vicenda del “corvo”, e della campagna diffamatoria contro Falcone, delle lettere anonime e così via, nate proprio all’interno della Magistratura e talora all’interno dello stesso Consiglio Superiore.

Peraltro, la vittoria di Meli confermò tutte le preoccupazioni che erano state espresse in quella notte dolorosa; e rappresentò la conclusione negativa dell’esperienza messa in campo da Chinnici, Caponnetto ed altri.

Insomma, io la ricordo ancora come una delle più brutte pagine della storia del C.S.M. e della stessa vita politica del Paese; una triste vicenda, che troverà, infine, il suo coronamento nella tragica e terribile esplosione del 23 maggio 1992.

Quanto alle altre domande, non posso dire granché, sia in relazione agli aspetti interni e correntizi della Magistratura, sia per quanto riguarda i componenti eletti dal Parlamento.

Posso solo dire che a prescindere dal gruppo dei tre designati dal PCI (Brutti, Gomez d’Ajala e Smuraglia) che votarono compatti per Falcone, non certo per ordini di partito, ma per profonda convinzione, nessun altro gruppo né politico, né giudiziario, è stato altrettanto compatto. In ogni “corrente” c’è stata una maggioranza in un senso, ed alcune defezioni nell’altro. Gli eletti dal Parlamento hanno votato indipendentemente dalla designazione ed in piena libertà, ma in modo del tutto variegato (si veda il quadro riassuntivo e conclusivo nel citato libro di Enrico Deaglio, a pag. 264).

Singolare è da ritenere, certamente, il fatto che in una vicenda così delicata ci siano state astensioni, poco comprensibili, al di là di quelle, per così dire “istituzionali” e relative alle cariche ricoperte.  Come ho già detto, era chiaro a tutti che non si trattava di una nomina ordinaria, ma era in gioco la stessa organizzazione giudiziaria dell’impegno contro le mafie.

Infine, per rispondere ad una specifica domanda, non credo (o almeno non mi risulta) che ci siano state pressioni politiche. Per quanto mi riguarda, io avevo accettato la designazione a membro del C.S.M. da parte del mio partito alla esplicita condizione di una assoluta e totale libertà, e credo che così dovrebbe essere sempre per tutti i laici. E aggiungo che se è vero che nel C.S.M. ci sono alcuni “laici” che non si spogliano della loro tessera e della loro provenienza politica, è altrettanto certo che nel caso specifico questo, quanto meno, non fu chiaramente percepibile.

Per quanto riguarda i Magistrati e le correnti, mi pare di avere già detto che non vi fu la “compattezza” di altre occasioni, probabilmente perché il caso andava ben oltre la questione dell’anzianità. D’altronde, è vero che tra i due concorrenti c’era una forte differenza d’età di servizio, ma è altrettanto vero che la differenza sostanziale era assolutamente evidente, tanto più che il C.S.M., (“quel” C.S.M.) dette indicazioni molto significative istituendo un Comitato “antimafia” che non aveva precedenti, col solo fine di rafforzare l’impegno e la cultura necessaria per una vicenda di particolare gravità e di forte impegno, in cui oltretutto avevano perso la vita diversi Magistrati e non pochi servitori dello Stato.

Per concludere con un pensiero del tutto personale, direi che quando ci ripenso, rivedo l’alba livida di quella giornata, dopo una notte di discussione, e ricordo soprattutto non il senso di una personale sconfitta, che pure sarebbe stato legittimo, ma il senso di un arretramento gravissimo su un tema  sul quale avrei voluto che tutto il C.S.M. e tutta la Magistratura (come, del resto, tutte le istituzioni ed i cittadini) fossero impegnati sempre e comunque; il che non significa fare una “giustizia orientata” ma assai più semplicemente capire che il fenomeno della criminalità organizzata e mafiosa, dovrebbe essere, per tutti, inaccettabile e affrontato dalla giustizia, con l’impegno e la cultura necessaria.

* Fonte: Giustizia Insieme

CSM Seduta Plenum 19 gennaio 1988

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