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In Calabria, giornalismo col bavaglio

Di Pietro Nardiello il . Calabria, Interviste e persone

Prosegue ininterrottamente l’azione intimidatoria nei
confronti del gornalismo d’inchiesta che, in questo caso, fa tappa in Calabria
e che vede come protagonisti Emiliano Morrone e Francesco Saverio Alessio
autori, per i tipi “Neftasia editore”, de “La società sparente” un racconto di
una fuga dalla terra d’origine e un’indagine sul binomio politica-‘ndrangheta
come causa della nuova e tragica emigrazione dalla Calabria.

Le solite minacce non si sono fatte attendere e si è passati
da quelle verbali, per Morrone,  a quelle
più arcaiche per Alessio che si è visto recapitare presso la propria abitazione
 un bigliettino scritto, in ritagli di
giornale, che così recitava: “attento alle tue mosse, taci”. Ma le forme di boicottaggio
sono poi proseguite con azioni che hanno cercato di impedire a San Giovanni in
Fiore, il centro silano da cui parte l’indagine,  le presentazioni del testo la cui prefazione
è firmata dal filosofo Gianni Vattimo e la presentazione dall’onorevole di AN
Angela Napoli.

Immediato è poi giunto anche un ricorso al  Tar con il quale il legale dell’imprentitore  Domenico Parrotta ha chiesto ai giudice di
Cosenza di sequestrare il testo o di imporre all’editore l’eliminazione  delle pagine 164 e 165 perché ritenute lesive
della reputazione di Parrotta e di impedire le presentazioni de “La società
sparente” nell’area silana.

 Morrone, un libro
sulla Calabria nel quale vengono indicati intrecci, voto di scambio, corruzione
ed altro senza riferimenti a boss o ad affiliati alla ’ndrangheta. Come mai?

Letteralmente ’ndrangheta sta per
società di uomini rispettabili. Come abbiamo scritto nel libro, spesso siamo
abituati a qualificare come mafiosa quell’organizzazione del crimine che
rispetta un certo codice linguistico e che mantiene una precisa cifra estetica.
Ciò che rimane fuori da questo schema in qualche modo è tollerato, è normale, è
naturale, anche se al di fuori della legge. Ecco, in La società sparente cerchiamo di andare oltre tanta manualistica
sulla ’ndrangheta, al di là delle prospettive essenzialistiche di molta
accademia. Proviamo, cioè, a focalizzare l’attenzione su ciò che non fa
spettacolo della malavita in Calabria, sui rapporti che producono alleanze
utili a sottrarre fondi europei e sulle logiche, irregolari, che determinano il
consenso politico. Diciamo così, abbiamo voluto studiare il sistema calabrese e
ne abbiamo raccontato la parte forse più profonda: il congegno di
assistenzialismo a oltranza che ci pare faccia girare tutto il resto. Rispetto
al quale sono maestri di regia politici e massoni deviati.

 Nel testo, insieme ad
Alessio, date delle risposte chiare e precise su come si possa,
definitivamente, aiutare la
Calabria. Ce
ne parla?

 La Calabria può aiutarsi da
sola. Se smette di sguazzare nell’assistenza e nei vantaggi della politica:
nomine, incarichi, protezione, piccoli e grandi privilegi. Un ruolo
fondamentale possono averlo gli emigrati, che mostrano di interessarsi alle
dialettiche della politica grazie alle possibilità di informazione e
comunicazione offerte dalla tecnologia. L’intelligenza connettiva può
sicuramente stimolare un confronto e un dibattito sull’etica nel pubblico,
anche presso i residenti in Calabria; i quali in genere resistono parecchio ai
venti di cambiamento. Gli emigrati potrebbero essere determinanti, se ci fosse
un loro rientro; non tanto in senso affettivo.
Soprattutto i giovani, che hanno
riscoperto l’importanza dell’ideologia, sono chiamati a concretizzare l’utopia
della giustizia che li anima nelle piazze. Dalle scuole alle parrocchie, dalle
strade ai forum, dalla musica all’arte, serve un’azione culturale a tutto campo
sull’emancipazione dalla ’ndrangheta – 
che, ripeto, non è solo un gruppo di famiglie.

Come mai fa così paura il vostro libro?

 

Perché abbiamo raccontato una
vicenda dimenticata, risalente al 1997: la storia di un grosso traffico di
droga imputato solo a eroinomani. Perché abbiamo fatto nomi e cognomi e ciò in
Calabria non è consentito, anche usando tutta la continenza e il garantismo possibile.
La libertà di stampa è questa, da noi: devi incensare politici e potenti con
tutti gli aggettivi più utili allo scopo. Dalla Rai ai quotidiani, tutti, più o
meno tutti, si prestano a questo gioco. Ora il libro non è sequestrato, ma il
giudice ci ha obbligato a una forma di autosequestro, imponendoci l’acquisto
delle copie – della prima edizione – rimaste a San Giovanni in Fiore (Cs).
Siamo poi indagati per diffamazione a mezzo stampa. Ma se si alza la testa, in
Calabria, tutto è buono per una Why not
perpetua: la Regione
è piena di dirigenti funzionali al potere, spesso in situazioni di grave
incompatibilità. Gli appalti sono truccati e vengono gestiti con imprese
campane contigue con la
Camorra. La
Sila è piena di rifiuti tossici e di traffici delle
ecomafie. Tratti della Salerno-Reggio Calabria sono ancora affidati a imprese
che, secondo buoni informatori, avevano rapporti con ’ndranghetisti trapiantati
a Chicago. Negli anni Settanta si incontravano coi mafiosi siciliani in
Provincia di Cosenza e stabilivano strategie e alleanze coi colombiani. C’è
moltissimo materiale per le inchieste. Peccato che in genere non si facciano.
Forse è meglio criminalizzare o incriminare magistrati e uomini coscienziosi.

 Una classe politica
coriacea e trasversale….

 In Calabria la massoneria deviata
è fortissima. De Magistris, della cui vicenda parliamo a lungo in “La società
sparente”, aveva individuato importanti assi e intrecci di potere: politici,
“fratelli” appartenenti a logge coperte, ’ndranghetisti in odore di santità,
nel senso mafiologico della parola, uomini di palazzo, alta Europa e profondo
Sud. La Calabria
ha un illustre passato nella storia della massoneria, un ruolo sempre
determinante. Il problema non è solo la classe politica. C’è una libera
muratoria che non si occupa solo il culto e riti. Sono convinto che arriva agli
inquirenti, che è dentro la giustizia, negli uffici delle procure, dentro i
ministeri.

La casa editrice di Pesaro ha provveduto alla publicazione
de la seconda edizione lasciando in bianco le due pagine incriminate «perché
ritenute lesive della reputazione di Domenico Parrotta».

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