Le regole e la vita
Pur nella drammatica crisi in corso, ci sono esperienze di cui occorre fare buon uso, fin d’ora. Tra esse, quella, nuova e fondamentale, tanto per i professionisti del diritto quanto per i comuni cittadini, di un mondo di regole sulla cui osservanza o trasgressione si sta giocando la vita delle persone.
L‘Alta Scuola Federico Stella sulla Giustizia Penale dell’Università Cattolica, che da tempo mette in dialogo il diritto con la grande letteratura, ha redatto – con l’impegno di molti professori – l’ebook gratuito Le regole e la vita: del buon uso di una crisi tra letteratura e diritto, una miscellanea da scaricare liberamente (ogni intervento è accompagnato da un video) e di cui anticipiamo qui parte dell’introduzione del curatore, il prof. Gabrio Forti.
Un’attesa di luce dalla carità
di Gabrio Forti
Non si vorrebbe mai che certe cose accadessero, a sé o agli altri. Ma quando accadono, occorre fare il migliore uso umano possibile delle condizioni avverse.
Il che vuol dire che tutti debbano sentirsi interpellati a testimoniare il proprio ‘modo’ di superare le difficoltà, avendo la consapevolezza che se ne potrà uscire solo tutti insieme. Un insieme che potrà e dovrà pazientemente comporsi con le conoscenze e sensibilità di ognuno, per la parte che volenterosamente gli competa. L’idea di questo libro, frutto di un progetto culturale condiviso, è nata appunto dalla aspettativa e dalla speranza che l’Alta Scuola “Federico Stella” sulla Giustizia Penale, e specialmente il gruppo di giovani docenti, ricercatori e studiosi delle regole che ne costituisce il cuore pulsante, avesse un ‘modo’ per parlare al Paese e alla vasta e pensante comunità accademica del problema immane che stiamo affrontando tutti insieme. Potremmo anche dire: per parlare al Paese pensando alle nuove generazioni, il cui futuro riceverà da questa pandemia una svolta inaudita, che solo con un grande impegno collettivo potrà essere indirizzata verso condizioni in grado di accoglierne e valorizzarne il patrimonio di intelligenza, impegno e passione.
In questa prospettiva, si vuole qui far risuonare un coro di voci nel quale le competenze propriamente giuridiche si saldino a un umanesimo letterario e filosofico, per comporre una rete di percorsi culturali e giuridici rivolti al «buon uso della crisi». […]
Alla letteratura e all’arte può e dovrebbe rivolgersi con profitto il professionista del diritto, anche solo per coglierne la comprensione intuitiva, la visione d’insieme su concetti, anche complessi, la cui trattazione scientifica può risultare decisivamente indirizzata dalle lame di luce che da queste espressioni dell’umano arrivano diversamente
a ciascuno, e da ciascuna competenza professionale o culturale possono essere recepite in modo diversamente generativo.
Qui un piccolo esempio […]. Lo si trarrà dall’opera del pittore surrealista spagnolo Joan Miró i Ferrà (1893-1983), del 1926, che si intitola Cane che abbaia alla luna e appare in copertina. L’oscurità, sotto la luna, che invade il dipinto, è punteggiata solo dal biancore patetico di tre minuscole figure: un cane, una scala e un uccello che volteggia nell’aria. Avvertiamo immediatamente il senso di smarrimento dell’essere vivente al cospetto di un’immensità sconosciuta. Si percepisce proprio quel timore dell’ignoto di cui parla Canetti. La luce è lontana e rischiamo tutti, come individui e comunità, di illuderci che i nostri latrati, magari rivolti rabbiosamente contro qualcuno, ci permettano di compensare la impotenza cognitiva e la perdita di controllo sull’ambiente e sulla natura che ci inquietano. Traiamo da questa immagine la rivelazione folgorante dei meccanismi illusionistici, perversi e dia-bolicamente divisivi, che incombono sul nostro presente e, soprattutto, sul nostro futuro, magari nella forma di digrigni guerreschi e accusatori, delle ostentazioni di forza e dei segni antichi della potenza sovrana.
Stretti dai verdetti arcani e imperiosi di una natura che può essere selvaggia e crudele, se non vogliamo fare come quel cane, tristemente isolato nell’oscurità, che abbaia alla luna per vincere l’angoscia della solitudine impotente, non abbiamo altra risorsa che la ricerca di una luce riscaldata dal tepore della solidarietà. Una luce condivisa grazie alla ‘benevolenza’ gli uni verso gli altri evocata da Manzoni in un passo straordinario de I promessi sposi (opportunamente ricordato in questi giorni da Renato Balduzzi)
«E, dopo un’assenza di forse due anni, si trovarono a un tratto molto più amici di quello che avesser mai saputo d’essere nel tempo che si vedevano quasi ogni giorno; perché all’uno e all’altro, dice qui il manoscritto, eran toccate di quelle cose che fanno conoscere che balsamo sia all’animo la benevolenza; tanto quella che si sente, quanto quella che si trova negli altri.
(A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXXIII)»
Anche l’attuale emergenza da Covid-19 ci dimostra infatti che solo la collaborazione di tutti (esperti di diverse discipline, pubblici amministratori, governi, organizzazioni sovranazionali, cittadini) anche nella spiegazione razionale degli eventuali errori commessi, e l’aiuto per porvi rimedio ed evitare che si ripetano, consentono di inquadrare entro i suoi giusti contorni l’oscura minaccia che stringe le nostre comunità.
È questo uno dei molti significati, forse il più ricco e fecondo, che si può attribuire alla parola ‘cultura’: da intendersi anche quale capacità di umanizzare le nostre paure, trasformandole in gesti, parole e azioni non di condanna, ma di aiuto e ascolto, per la costruzione di storie ed esperienze condivise. E cultura è anche ciò che permette di oltrepassare almeno col pensiero e il senso di umanità quella distanza fisica dai nostri simili che ci è stato chiesto di tenere precauzionalmente per non diffondere il contagio. Un’esigenza che si è rivelata ancor più impellente per la rinnovata consapevolezza, come ricordava anche in questi giorni Bill Gates («Corriere della Sera», 12 aprile 2020), di quanto l’umanità intera non sia solo interconnessa da valori comuni e da legami sociali, ma da una interdipendenza anche biologica, «da una rete microscopica di germi per la quale la salute di un
individuo dipende dalla salute di tutti gli altri».
C’è un profondo significato laico, oltre a quello religioso, in un celebre passo della Prima Lettera ai Corinzi, dove San Paolo, subito dopo aver descritto la condizione infantile, di minorità, nella quale si è preda inerte di visioni confuse (di quella corruzione dei saperi con cui Mefistofele la fa da padrone sugli umani) indicava nella carità la più grande di tutte le cose.
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