Golem: La pista dell’arte per arrivare a Messina Denaro
Matteo Messina Denaro viene ricercato
dai «cacciatori» delle forze dell’ordine seguendo tracce particolari,
quelle lasciate dalle sue «passioni», che non solo quelle per le imprese,
gli appalti, o anche le donne, i belli orologi e le auto di lusso, ma
sono anche quelle per l’arte e l’archeologia.
Un fascino nutrito però alla sua maniera.
Da boss e capo mafia. Matteo Messina Denaro, castelvetranese, 47 anni,
latitante da 16 anni, ne è un fine cultore dell’arte solo e soltanto
per specularci. Una passione ereditata, come quella mafiosa, dal padre,
Francesco Messina Denaro, morto 11 anni addietro, che è indicato come
uno dei primi «tombaroli» del parco di Selinunte. Si racconta che
preziosi reperti archeologici portati via da quel sito (o da quello
delle Cave di Cusa di Campobello di Mazara) dal «patriarca» di Cosa
Nostra, siano finiti in una collezione privata di un sacerdote, ora
deceduto, nella cui canonica l’anziano Messina Denaro sarebbe stato
anche a lungo latitante. Un’altra parte di reperti archeologici sarebbero
finiti in un «caveau» in Svizzera, anche «un’anfora d’oro da
un miliardo e mezzo di vecchie lire».
Tutto questo interesse per l’arte e
l’archeologia non è una novità. In alcuni «pizzini» dove racconta
la sua vita, Messina Denaro scrive non a caso che con i traffici di
arte di cui è specialista «potrebbe mantenersi».
Intanto c’è un processo in corso a
Roma dove la sua ombra si è delineata: un dibattimento per traffici
d’arte illegali, dove è coinvolto un castelvetranese «doc», Gianfranco
Becchina, che farebbe parte di quella «gang» fatta da dandy ed elegantoni,
che però sarebbero responsabili dei furti d’arte in Italia e in mezza
Europa, commerci d’arte intrecciati con Usa e Giappone. Becchina ha
un negozio in Svizzera, a Basilea, lì dentro carabinieri e polizia
elvetica sono andati a trovare materiale, e fatture e un documentato
archivio segreto dei traffici, anche con i «prezzi» di armi da comprare,
e poi 10 mila foto di reperti archeologici. Passa dunque da Castelvetrano
questa indagine «romana» sul traffico di reperti archeologici, coinvolti
imprenditori, antiquari e restauratori, gli investigatori si sono mossi
tra gallerie e società anche in Svizzera e negli Stati Uniti. Per i
magistrati romani Gianfranco Becchina avrebbe svolto il ruolo di «collettore
dei traffici d’arte nel Meridione». Il filo scoperto unisce il Belice
al «Miho Museum» di Koka: per rogatoria internazionale i «clienti»
dell’imprenditore di Castelvetrano hanno confermato di essere in affari
con Becchina dal 1989, ma hanno negato di essere a conoscenza dell’origine
illegale degli oggetti.
Castelvetrano non si trova per caso dentro
questa indagine. E qui si torna a Messina Denaro. Francesco, assoluto
capo mafia della provincia di Trapani, il boss che Bernardo Provenzano
andava a trovare percorrendo da solo guidando una Fiat 500 la strada
che collega Corleone a Castelvetrano, fu autore negli anni ’60 del
furto del prezioso «Efebo», rubato all’interno del Municipio di
Castelvetrano. Anni a venire, a fine anni ’90, Matteo Messina Denaro
aveva organizzato a Mazara del Vallo il furto del «Satiro Danzante»
appena recuperato (marzo 1988) dal peschereccio «Capitan Ciccio» nel
Canale di Sicilia, e che veniva tenuto in «ammollo» in acqua salmastra,
in un edificio comunale, in attesa della partenza per Roma per il restauro.
Una storia raccontata già diverse volte da quando la Polizia la “intercettò”
ascoltando il racconto di un pentito durante le indagini sulla mafia
marsalese. Tutto era pronto per sottrarre il Satiro ai suoi custodi,
un commando, un camion, il prezioso bronzo, che doveva finire intanto
dentro una buca già scavata in un terreno, avrebbe preso direzione
Svizzera, se non fosse stato se quella sera a Mazara i vigili urbani
di guardia non decidevano di trascorrere la serata mangiando una pizza.
Uno restò vicino al Satiro e l’altro si allontanò, si era deciso,
raccontò l’ex vigile urbano di Marsala, Mariano Concetto, uomo d’onore,
ora pentito, che si sarebbe atteso l’arrivo dell’altro vigile e
al momento che il portone dell’edificio che ospitava il Satiro veniva
aperto, avrebbero dato l’assalto a quegli sventurati per portarsi
via il Satiro. Accadde invece che il vigile urbano non tornò solo,
portava con se pizza e altra gente, e la «sorpresa» non fu così potere
essere fatta e qualche ora dopo, la mattina successiva, la statua venne
imballata con destinazione il Centro Nazionale del Restauro, a Roma.
Messina Denaro perse l’affare, ci sarebbe stato già un acquirente
pronto per la statua di Prassitele.
Travagliata pure la storia del furto
dell’«Efebo», risale al 1962, una storia questa meno nota, quasi
dimenticata. L’unico a conoscere il valore di quella statuetta era
Francesco Messina Denaro, all’epoca era tenuta nell’anticamera dell’ufficio
del sindaco di Castelvetrano, era chiamato «u pupu» e veniva usata
come porta cappello. Una statuetta in bronzo alta 85 centimetri, trovata
in località Ponte Galera di Castelvetrano nel 1882 e risalente ad un
periodo compreso tra il 480 e il 460 a. C.; una volta rubata finì negli
Usa per la vendita, cosa che fallì, ritornò in Europa e si fermò
in Svizzera, infine il ritorno in Sicilia per assenza di acquirenti.
Venne nascosto in una casa di Gibellina e per poco non restò sepolto
sotto le macerie del terremoto del 1968. Quando si capì che nessuno
lo avrebbe acquistato, al Comune di Castelvetrano giunse anche una richiesta
di riscatto, 30 milioni di lire, una cifra esorbitante per quegli anni.
Il 14 marzo del ’68 venne recuperato dalla Polizia a Foligno, in Umbria.
Custode di quella statuetta era il campobellese
Leonardo “Nanai” Bonafede, allora 36 enne, oggi settantenne, e capo
della cosca, tra i 13 arrestati dell’operazione «Golem»: lui i Messina
Denaro continua a non
Con i mano poi i libri di storia dell’arte
nel 1993 Matteo Messina Denaro scelse gli obiettivi dei monumenti per
gli attentati di Roma, Milano e Firenze. Nell’operazione «Golem»
c’è quest’altro filo che riemerge, i poliziotti a Roma sono andati
a perquisire la casa di un soggetto indagato per quelle stragi, per
avere occultato il tritolo, rimase però fuori dai processi. Anche lui,
un “colletto bianco”, è della cerchia degli amici di Matteo Messina
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