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Carceri: la rieducazione della pena come “offerta” per il detenuto

Piero Innocenti il . Giustizia, Istituzioni, Società

carcereLa situazione esplosiva nelle carceri italiane dovuta anche alle condizioni di sovraffollamento e ai timori di possibili contagi da virus, con le rivolte, con morti e feriti, dei giorni scorsi e le dichiarazioni riportate da alcuni quotidiani di magistrati (Alberto Nobili, p.m. a Milano) sulla funzione della pena “non solo punitiva ma anche riabilitativa” e di politici (Matteo Renzi) “funzione rieducativa”, ci danno lo spunto per qualche riflessione.

Partendo, appunto, dall’art.27 comma 3 della Costituzione che afferma, solennemente, che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, dove il verbo tendere, dal punto di vista lessicale, sta a significare uno sforzo, un’azione tesa a raggiungere un risultato.

Un tentativo, insomma, e non è affatto scontato che tale sforzo si concluda con un risultato positivo. E sul tema segnalo le interessanti considerazioni contenute nell’articolo di dottrina pubblicato a pag. 877 della Rivista Penale n.10/2019 (Ed. La Tribuna, Piacenza), a firma di Antonio Leggiero che, se da un lato sottolinea come “il condannato ha il diritto di poter contare su una congrua rete di strumenti al fine di poter seguire un percorso serio di ravvedimento esistenziale e di poter essere (re)inserito a pieno titolo nella società, dopo l’espiazione della pena”, dall’altro lato ricorda pure che questa occasione prevista dalle norme è “un’offerta prospettata al detenuto. Nulla più. Un’offerta  che, come tutte le offerte, il condannato (essere umano) è libero di accettare oppure no”.

E’ il recluso che, alla fine, decide con valutazioni personali e magari di comodo (per ottenere sconti di pena) “se recepire l’offerta rieducativo-riabilitativa offertagli dallo Stato” e pensare che ci possa essere la (quasi) certezza di un sicuro ravvedimento grazie all’opera di educatori sociali, psicologi e criminologi che prestano servizio nelle carceri “è qualcosa di molto simile ad una mitica chimera”.

Lo Stato, continua Leggiero, escludendo quelli totalitari e dittatoriali che “rieducano” con sistemi ripugnanti, “non rieduca ma offre la possibilità di un ravvedimento” e spetta solo al detenuto “decidere di risocializzarsi ma non può venire rieducato contra voluntatem”.

Ed allora bisogna “riconoscere ed ammettere che la pena non sempre riesce nello scopo primario e primigenio di recupero del condannato. In alcune ipotesi non riesce neppure a lambirlo”.

E devo dire che, sulla scorta anche di una esperienza personale quarantennale nella Polizia di Stato, non ne ho visti molti di condannati rieducati a fine pena. Pena che si caratterizza sempre per quella finalità retributiva e di prevenzione generale per tutelare la gran parte della società che non delinque.

Senza contare, sottolinea ancora Leggiero, come il recupero finalizzato al reinserimento sociale può essere efficace nei confronti di un “criminale comune”, per esempio un ladro, un truffatore, un rapinatore “che può cogliere l’utilità dei servizi approntati dall’ordinamento nei suoi confronti in un’ottica riabilitativa”, non certo nei riguardi di un “delinquente di professione”, “per il quale la sua è una scelta di vita consapevole dei rischi e dei benefici”, né nei confronti del cosiddetto “criminale del singolo delitto” che “verosimilmente ha commesso un solo delitto nella sua esistenza e non ne commetterà altri”.

Queste le considerazioni sulla funzione di rieducazione del condannato, “una realtà dura ma incontrovertibile” sulla quale non si dovrebbe “indulgere in alterazioni ideologiche e sovrastrutture mentali di tipo sofisticante e di sapore vanamente metafisico”.

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