Il presepe, progetto di Dio per tutti noi
Ho sempre amato i presepi, una tradizione della mia famiglia fin da piccolo.
In quegli anni, intorno al 1965 – 1970 era usanza in casa mia dedicare un’intero lungo tavolo di una stanza ad ospitare il presepe.
La grotta fatta di carta con le montagne, oppure la capannuccia in legno illuminata dalle lucine, il muschio possibilmente vero, il lago ed i fiumi con la carta azzurra, il deserto con la sabbia, la carta stellata come cielo, le tante casine che si dislocavano lungo il percorso verso la grotta che formavano piccolissimi borghi, dove tanti personaggi, comprati nel corso degli anni, si incamminavano attratti dalla stella cometa. Sopra la grotta gli angeli e nel giorno dell’Epifania l’arrivo dei re Magi davanti a Gesù Bambino, il cui cammino iniziava giorni prima nel deserto.
L’albero di Natale era un qualcosa di superfluo, quasi un sovrappiù, perché il Natale non era fatto dai giocattoli e dai regali, ma principalmente dal presepe. Casomai i dolci, quelli sì, o le cose utili come i vestiti, ma i giocattoli, quando era possibile (ero figlio di operai e non sempre i miei potevano soddisfare i desideri di me e mia sorella), arrivavano solo per la Befana.
Più grande da ragazzino, non posso scordare il presepe vivente, fatto dall’oratorio Don Bosco ai saloni della Basilica; un rito per me, in cui tornavo più volte durante le feste, perché era bello passare da una scena all’altra, animata dai ragazzi della mia età dell’oratorio e dalle loro musiche.
Si respirava un’aria diversa nelle nostre comunità, l’aria di un Natale meno consumistico e più incentrato sui suoi valori religiosi e umani.
Poi anche da grande, a me è sempre più piaciuto il presepe all’albero, e Maria, Giuseppe, il bambino e gli asinelli non sono mai mancati. Per anni e anni ad ogni Natale ho riallestito la capannuccia che i miei avevano comprato quando ero piccolo.
Ieri poi ho avuto l’occasione di riflettere un po’ sui bellissimi auguri inviati dalla Fraternità della Visitazione di Piandiscò e sulla frase scritta da Padre Ermes Maria Ronchi che dice: “A Natale non celebriamo un ricordo, il compleanno di Gesù, ma un progetto: l’inizio di un altro modo di abitare la terra: essa non appartiene a chi è più forte e accumula più denaro. La storia appartiene alla bontà senza clamore, all’amore senza vanto, al servizio senza interesse”.
Così ho pensato che il presepe che costruiamo ogni anno ci deve spingere non a ricordare un evento, non a spengere delle candeline di compleanno, ma a decidere se fare nostro il progetto che Dio ha pensato per la vita degli uomini e delle donne che hanno abitato, abitano e abiteranno questa terra.
Mettiamo i personaggi nel nostro presepe che più sentiamo oggi avrebbero un posto davanti al bambino che Dio ci dona anche oggi per cambiare il mondo, e riflettiamo su come vogliamo abitare questo nostro pianeta.
Riflettiamo su che posto abbiamo noi nella nostra società e se siamo cristiani, cerchiamo di capire cosa Dio ci chiede di fare, sulla base dell’insegnamento di Gesù.
Si perché Gesù poi cresce, esce da quel presepe e diventa la pietra angolare che ci impone di scegliere da che parte stare. Se dalla parte delle sue beatitudini o se dalla parte del potere e del nostro interesse.
Così pensando al Natale, ho scelto alcune immagini che per me sono la rappresentazione delle persone che oggi avrebbero un posto privilegiato davanti alla grotta dove nasce Gesù (bambini, anziani, discriminati di ogni genere, migranti, poveri, disoccupati, precari, persone che subiscono i danni che stiamo causando all’ambiente, donne che subiscono violenza, ecc…).
Tornando alle parole di Padre Ermes Maria Ronchi, se davvero il presepe è il simbolo del progetto di Dio sul mondo, tutti noi il presepe lo dobbiamo non ammirare, non renderlo un semplice gesto di tradizione, non appropriarsene come segno distintivo culturale, ma realizzarlo ogni giorno della nostra vita, seguendo quelle beatitudini che non lasciano scampo, se non vogliamo fingere con noi stessi.
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