Immigrazione clandestina e rimpatri, tra progetti e proclami
Tra i costosi e spesso inconcludenti progetti che dovevano servire “per accrescere la capacità di reazione delle forze di polizia in modo tale da mitigare e contrastare l’immigrazione illegale” (Ministero dell’Interno, 10 novembre 2012), vi era quello di Eurosur (European Border Surveillance System), un sistema comune utilizzando le tecnologie per il controllo e lo scambio di informazioni tra Italia, Francia e Spagna per le frontiere marittime esterne meridionali, tra Finlandia, Polonia e Slovacchia per quelle orientali e tra tutti questi Paesi e l’agenzia Frontex.
Ampollosamente definito il “grande fratello del Mediterraneo” da Cecilia Malmstron (allora Commissaria per gli Affari Interni UE), finanziato dal Fondo Frontiere Esterne 2007/2013, era stato attivato in Italia nel gennaio del 2012 presso la Direzione Centrale per l’Immigrazione e la Polizia delle Frontiere e doveva servire per “aiutare quanti rischiano la vita pur di raggiungere le coste europee”. Si sa come i flussi migratori via mare siano andati aumentando nei cinque anni successivi con oltre diecimila persone morte annegate o disperse nel Mediterraneo.
Si sono perse le tracce anche dello studio GMES (Global Monitoring Enviroment System) sempre finanziato dall’UE sull’osservazione della Terra per avere, tra l’altro, anche informazioni accurate sulla sicurezza e la sorveglianza delle frontiere. Tutte progettualità che hanno suscitato gli interessi di molte aziende del settore ( e non solo) che hanno visto la prospettiva di consistenti guadagni.
Costosa (9,5 milioni di euro al mese) anche l’operazione Mare Nostrum condotta dalla nostra Marina Militare che negli anni scorsi aveva contribuito al salvataggio in mare di migliaia di migranti e che poi è stata sostituita da Eunavformed- Sophia, operazione europea a guida italiana iniziata nel 2015 (sospesa a fine 2018 su pressioni politiche italiane) che avrebbe dovuto principalmente svolgere servizio di pattugliamento nelle acque internazionali, raccogliere informazioni sul traffico di esseri umani procedendo anche al fermo e alle ispezioni di navi sospettate nella tratta e solo in una eventuale terza fase (che non c’è mai stata mancando le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite) procedere anche alla eliminazione di tali imbarcazioni.
Modesta l’attività svolta nello specifico settore e non poteva essere diversamente atteso che gli organizzatori del traffico di migranti e i loro luogotenenti sono sulla terraferma, in Libia (coinvolti gli stessi capi tribù) e in Tunisia in particolare, e quelli che vengono arrestati dalla Polizia di Stato dopo gli interventi di soccorso in mare e le successive indagini, comunemente indicati come “scafisti” (un centinaio quelli arrestati nei primi otto mesi del 2019), in genere di nazionalità gambiana, egiziana, senegalese, nigeriana, ucraina, tunisina, sono manovalanza bassa delle organizzazioni criminali. In molti casi, si è trattato addirittura di migranti stessi che non avendo denaro a sufficienza per pagare la traversata si sono prestati a fare gli “scafisti”.
Ignota anche la fine delle due piattaforme di dialogo politico tra l’UE e i Paesi dell’Africa settentrionale e occidentale (Processo di Rabat del 2006) e dell’Africa Orientale (Processo di Khartoum del 2014), finalizzate allo sviluppo della cooperazione sui temi migratori e per le quali la Commissione europea aveva previsto adeguati fondi di finanziamento.
Lungo e costoso (finanziato sempre dall’UE) anche il progetto Sahara-Med, avviato nel 2010 e concluso ad aprile 2016 che doveva servire a potenziare le capacità istituzionali ed operative della Libia in tema di gestione delle frontiere e dell’immigrazione e che si è limitato nella sua fase finale ad alcune attività curate dall’OIM relative all’assistenza ai migranti nei centri libici di detenzione (veri luoghi infernali) e all’attivazione di meccanismi di rimpatrio volontario assistito.
Non ha avuto grande seguito neanche il Progetto Euromed Police III, anche questo finanziato dalla Commissione europea, avviato con una prima riunione in Spagna nel 2012, per una cooperazione maggiore tra i Paesi del sud del Mediterraneo e quelli dell’UE per combattere la grande criminalità e tra questa la tratta degli esseri umani.
Da noi, poi, una definita, chiara politica migratoria è assente da oltre un decennio e cioè da quando fu redatto l’ultimo documento programmatico triennale che avrebbe dovuto essere predisposto in ottemperanza all’art.3 del Testo Unico sull’Immigrazione dal Presidente del Consiglio dei Ministri sentiti i Ministri interessati e tutte le altre istituzioni e organizzazioni indicate nella norma.
I rimpatri degli stranieri irregolari
Siamo sempre a parlare di immigrazione via mare e di “sbarchi fantasma” sulle nostre coste (ci sono sempre stati ma se ne parlava poco) quasi che fosse la questione di vitale importanza per il nostro Paese.
In realtà, sul piano politico generale, il tema dell’immigrazione clandestina anche con l’attuale Governo rimane una delle priorità soprattutto dopo che, negli ultimi giorni, si sono registrati diversi approdi a Lampedusa, in Sardegna e in Calabria (per un totale del 2019 di poco inferiore a diecimila stranieri) subito particolarmente enfatizzati da alcuni esponenti politici dell’opposizione ma anche da alcuni quotidiani. Sono, così, arrivate puntuali le “rassicuranti” dichiarazioni in televisione del Ministro degli Esteri che ha “chiarito” il suo punto di vista sui migranti sottolineando che “la maggior parte delle persone sbarcate provenivano dalla Tunisia” sui barchini (e non è una novità) e che presto (la prossima settimana) avrebbe adottato provvedimenti per accelerare le procedure di rimpatrio.
Ora, per quanto ci si sforzi di capire quali possano essere queste procedure non si può non rilevare come i rimpatri degli stranieri irregolari sul territorio nazionale verso i Paesi di origine presuppongono, come è noto, accordi politici che, allo stato, sono vigenti solo con quattro Paesi. Senza questi accordi e senza che la corrispondente autorità consolare rilasci il lasciapassare per il cittadino riconosciuto di quel Paese non si può rimpatriare nessuno.
Tutta la materia, poi, è regolata da norme del diritto interno (Testo Unico sull’Immigrazione del 1998) e dal diritto comunitario, in particolare dalla direttiva 2008/115/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio (entrata in vigore il 13 gennaio 2009).
I rimpatri sembrano diventati una vera e propria ossessione di buona parte della classe politica e già nel precedente Governo era stato lo stesso Presidente del Consiglio a dichiarare (era l’11 luglio 2019) che bisognava rivedere l’intera materia dei rimpatri che, pure, nel periodo 1 agosto 2018-31 luglio 2019, erano stati 6.862 ai quali andavano sommati i 555 rimpatri volontari assistiti.
Ora, è pur vero che vi è un Fondo Europeo per i rimpatri che garantisce il cofinanziamento di tali attività che i Paesi membri intendono adottare per tale fine, ma vi è un aspetto da considerare, non secondario, che è quello dell’impiego di personale della Polizia di Stato nel dispositivo delle scorte che bisogna approntare per tali servizi. Un impiego di risorse umane notevole perché per ciascun volo charter occorrono molti agenti (due per ogni straniero rimpatriando), un dirigente capo sorta, interpreti, personale medico e paramedico della Polizia di Stato. Deve trattarsi, poi, di personale abilitato a svolgere tale tipologia di servizio a seguito di appositi corsi di formazione (e di aggiornamento) riservati a poliziotti in servizio presso le Questure, gli Uffici di Polizia di Frontiera e la Direzione Centrale per l’Immigrazione e la Polizia delle Frontiere (Dipartimento della Pubblica Sicurezza). Solo eccezionalmente il dispositivo di scorta può essere integrato con personale non abilitato.
Si tratta, dunque, come ho avuto modo di scrivere già in passato, di servizi costosi, particolarmente delicati e complessi che non potranno mai essere svolti “riempiendo gli aerei di migranti per riportarli a casa loro” (non basterebbe l’intero organico della Polizia di Stato!) come qualche politico, in campagne elettorali passate, aveva superficialmente affermato.
Le persone vanno rimpatriate sempre in maniera umana e nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità come sottolineato dalla direttiva comunitaria suindicata. Un principio che trova ampio riscontro nella nostra Costituzione (articoli 2 e 10), nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (ratificata con legge 848/1955 e nella Carta europea dei diritti fondamentali del 2000.
Gli accordi di varia natura con gli altri Stati
Il tema dell’immigrazione clandestina continua ad essere al centro dell’attenzione governativa e mediatica e, nell’attesa di una riforma più volte auspicata del Regolamento di Dublino III (la terza da quando è entrato in vigore nel 1990) e di vedere se il “preaccordo” firmato a Malta alcuni giorni fa sulla redistribuzione automatica dei migranti soccorsi in mare troverà disponibili anche gli altri Stati membri dell’UE, c’è attesa per conoscere “le novità sui rimpatri” annunciate dal nostro Ministro degli Esteri.
Rimpatri, come noto, non di facile attuazione considerati i costi molto alti, la necessità del “riconoscimento” dello straniero da parte dell’autorità consolare del paese di provenienza, i limiti precisi per l’uso coercitivo delle misure di rimpatrio fissati dalla direttiva 2008/115/CE e, soprattutto, la mancanza di accordi con i Paesi di origine.
La direttiva stabilisce che uno Stato membro, qualora non sia stato concesso un periodo dai sette ai trenta giorni per la partenza volontaria o per mancato adempimento dell’obbligo di rimpatrio dello straniero entro il termine concesso per la partenza volontaria, deve ordinare il suo allontanamento solo in ultima istanza e con misure coercitive proporzionate, senza eccedere nell’uso ragionevole della forza. Le decisioni di rimpatrio, poi, debbono esser adottate “caso per caso” (come indica il “sesto considerando” della suddetta direttiva), non limitandosi a prendere in considerazione il semplice fatto del soggiorno irregolare ma valutando anche il rispetto dei diritti fondamentali della persona.
Una maggiore attenzione, in tutti gli stadi del procedimento di rimpatrio forzato, dovrebbe essere riservata anche ai “Venti orientamenti” adottati in materia dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 4 maggio 2005 (non vincolanti ma pur sempre importante riferimento comunitario).
I rimpatri, come accennato, sono effettuati solo verso quei Paesi con i quali esiste un accordo politico di riammissione e, sino ad oggi, risultano formalizzati accordi solo con la Tunisia (2017), il Marocco (1998), il Pakistan (2000) e con le Filippine (2004). Ci sono, inoltre, accordi di natura tecnico-operativa (Intese) fatti nel tempo dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza (Ministero dell’Interno) con i corrispondenti organismi di polizia dei Paesi a forte vocazione migratoria per “fluidificare procedure già contemplate dall’ordinamento” e che prevedono ambiti di cooperazione tra le forze di polizia (così con la Turchia dal 2001, con l’Egitto dal 2007, con l’Algeria dal 2008, con il Gambia dal 2010, con l’India dal 2000).
Non mancano, poi, altre strade percorribili in tema di cooperazione anche sull’immigrazione con i “memorandum d’intesa” che esistono con la Libia (dal 2017), con il Ghana (dal 2010), con il Niger (dal 2011), con la Nigeria (dal 2011), con il Senegal (2010), con il Sudan (2016).
Ci sono, poi, i rimpatri volontari assistiti (finanziati dall’apposito Fondo europeo), che consistono nella possibilità che viene offerta ai cittadini di Paesi terzi presenti nell’UE (persone vulnerabili vittime di tratta, stranieri che non soddisfano più le condizioni per il rinnovo del permesso di soggiorno ecc..), di ricevere aiuto per rientrare in modo volontario, in condizioni di sicurezza e con un’assistenza adeguata nel proprio Paese.
Più di due anni fa, con l’obiettivo di aumentare i rimpatri, con il decreto legge 2017/13 si era deciso l’ampliamento della rete dei Centri per i rimpatri (Cpr) su tutto il territorio nazionale (centri di capienza limitata, cento posti ciascuno), prevedendo una spesa di 13 milioni di euro (legge di bilancio di previsione dello Stato 2017-2019). La realtà è che ne son stati attivati solo due (in provincia di Potenza e a Trapani) in aggiunta ai cinque già attivi, con una capacità ricettiva totale odierna di 715 posti (l’obiettivo dichiarato era di arrivare a 1.600 posti) e con una situazione reale di effettivi rimpatri ancora modesta rispetto alle intenzioni governative tante volte formulate (su 2.267 stranieri transitati nei Cpr al 20 giungo scorso, solo 1.022, il 45%, sono stati effettivamente rimpatriati).
Vedremo se la situazione si modificherà con le “novità” accennate.
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