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Una tassa sui patrimoni “incongrui” per recuperare equità e coesione sociale

Cleto Iafrate * il . Economia, Istituzioni

tassa-patrimonialeNell’ultimo ventennio il nostro debito è più che raddoppiato, a marzo scorso il suo ammontare era pari a 2.358,8 miliardi (fonte Banca d’Italia). Siamo il paese europeo che spende la cifra più alta in assoluto per interessi sul debito. Anche lo scorso anno abbiamo dovuto staccare un assegno miliardario per pagare gli interessi agli investitori di tutto il mondo, pena la dichiarazione di insolvenza. Un assegno di ben 65 miliardi, l’equivalente di due manovre di bilancio.

Se il debito venisse ridotto, questi denari potremmo utilizzarli per fare altro, per esempio, potremmo impiegarli per le politiche sociali. Si consideri che Germania e Francia riservano quasi il 10% della loro spesa pubblica alla scuola, contro il 7,5 dell’Italia. Per di più la Francia ha un budget di spesa ben più alto dell’Italia, pari a oltre 1.200 miliardi, contro i nostri 850 miliardi.

Sempre nel corso dell’ultimo ventennio anche la ricchezza delle famiglie italiane è cresciuta progressivamente, tanto da sfiorare la soglia dei 10 mila miliardi di euro, oltre quattro volte il valore del debito, di cui le attività reali (abitazioni, terreni) valgono circa 6.000 miliardi e quelle finanziarie (conti, depositi, titoli, azioni, ecc.), al netto delle passività (mutui, prestiti personali), valgono 4.000 miliardi circa.

Semplificando i dati e ragionando per medie aritmetiche, possiamo affermare che è come se ogni italiano residente avesse un debito di circa 39 mila euro e al contempo detenesse un patrimonio di circa 160 mila euro (composto per il 60% da immobili e per il 40% da contanti).

Questa massa di ricchezza, ovviamente, non è equamente distribuita. Pare che il 50% della ricchezza sia finito nelle mani del 10% delle famiglie.

Sull’evasione fiscale non ci sono dati certi, l’unica certezza è che in Italia da decenni l’evasione viaggia a 12 cifre. Ogni anno, infatti, sfuggono a tassazione circa 270 miliardi, che se venissero tassati frutterebbero alle casse dell’erario non meno di 100 miliardi di imposte.

Ragionando anche qui per medie aritmetiche, possiamo affermare che è come se ogni famiglia occultasse al fisco ogni anno circa 11 mila euro di reddito (le famiglie sono 24,5 milioni). Le famiglie, ovviamente, non evadono tutte e non tutte allo stesso modo. Si stima che per alcune categorie di contribuenti l’evasione sia pari addirittura all’80% del reddito totale prodotto.

In realtà, proprio il mancato incasso di questi denari ha comportato l’arricchimento di alcune famiglie, a svantaggio di altre, che da decenni subiscono una pressione fiscale veramente eccessiva.

Stando così le cose, se per ridurre il debito pubblico pensassimo di varare un’imposta patrimoniale senza un preventivo accertamento circa la reale provenienza dei patrimoni, non faremmo altro che aggiungere ingiustizia ad iniquità. Ciò in quanto in alcuni patrimoni è confluito solo il risparmio ed in altri anche i proventi dell’evasione, complice una normativa troppo timida nel contrasto dell’autoriciclaggio. Si consideri che fino al 2015 l’attività di autoriciclaggio – in qualunque forma fosse realizzata – non era punibile in quanto la condotta dell’autoriciclatore era considerata come naturale prosecuzione del delitto presupposto.

Se la parola “equità fiscale” ha un senso, quindi, occorre procedere con un “atto di giustizia fiscale ripartiva”, cioè bisogna anzitutto tassare i patrimoni di provenienza illecita.

Una soluzione potrebbe essere quella di “individuare” a monte liste di contribuenti che presentino gravi incongruenze in relazione al rapporto tra redditi dichiarati e patrimonio posseduto.

Più nel dettaglio, si tratta di mettere a confronto il patrimonio detenuto da ciascun nucleo familiare con i redditi dichiarati al fisco nel più lungo arco di tempo consentito dal sistema informativo dell’anagrafe tributaria, l’intera vita lavorativa o comunque gli ultimi 15 – 20 anni. In questo modo ben si potrebbero individuare i patrimoni “incongrui” da tassare.

Nulla da temere per chi non ha “scheletri nell’armadio”. Con questo metodo, infatti, verrebbero alla luce solo i patrimoni intestati a prestanome, quelli provenienti da attività illecite e, in particolare, dall’autoriclaggio dell’evasione.

Si tratta, ripeto, di un’imposta straordinaria da destinare alla riduzione del debito pubblico, che colpirebbe solamente i patrimoni incongrui. In questo modo ciascun cittadino contribuirebbe alla riduzione del debito in modo molto diverso in base alla sua fedeltà fiscale. L’imposta con cui tassare il patrimonio, infatti, non dipende solo dall’ammontare del patrimonio, ma anche dal reddito dichiarato nel lungo periodo considerato.

Una volta che il software avrà selezionato i “contribuenti incongrui”, questi potranno sempre dimostrare la lecita provenienza del loro patrimonio.

Lo stesso discorso andrebbe esteso all’imposta di successione e donazione, si dovrebbe prevedere un criterio di calcolo basato sul medesimo principio.

L’imposta di successione dovrebbe dipendere dalla congruità dell’asse ereditario al reddito prodotto e dichiarato in vita dal de cuius.

Dopo decenni di evasione scandalosamente elevata si ritiene che questa proposta possa rivelarsi un efficace strumento, certamente non l’unico, per ridurre il debito pubblico, ma soprattutto utile per recuperare equità, solidarietà e coesione sociale.

Per quanto concerne la fattibilità della proposta, si consideri che i dati relativi al patrimonio immobiliare sono tutti disponibili in Anagrafe tributaria e quelli relativi al patrimonio mobiliare sono disponibili presso l’Anagrafe dei conti e dei rapporti finanziari. Un archivio nel quale annualmente tutti gli operatori finanziari (Banche, Poste, ecc.) trasmettono il saldo e la giacenza media di tutti i rapporti in essere relativi all’anno precedente.

Il primo passo da compiere sarebbe quello di rendere obbligatoria per tutti la presentazione della Dichiarazione Sostitutiva Unica (DSU), che oggi viene presentata dai soli contribuenti che richiedono il modello ISEE per poter accedere a vantaggi fiscali o prestazioni sociali.

Si consideri che il dato del patrimonio mobiliare da dichiarare in DSU fino al 2015 era autocertificato. Da quell’anno in poi è stato introdotto l’obbligo di verifica di quanto dichiarato da parte dell’INPS sulla base delle risultanze dell’Anagrafe dei conti e dei rapporti finanziari.

Ebbene, il primo anno (quello in cui sono iniziati i controlli) le dichiarazioni con patrimonio nullo sono passate da quasi il 70% al 16%. Ciò significa che fino all’anno 2015, il 54% circa delle autocertificazioni presentate ai fini ISEE erano infedeli.

Questa percentuale, oltre a getta un’ombra di sospetto sull’attendibilità di qualsiasi dato reddituale auto-dichiarato, dimostra quanto l’anagrafe dei conti e dei rapporti finanziari sia stata utile ed efficace per correggere i vizi degli italiani.

Ebbene, la proposta sopra esposta prevede proprio l’estensione, in chiave antievasione, dell’utilizzo dell’Anagrafe dei conti e dei rapporti finanziari.

* Segretario Generale SIM Guardia di Finanza e Vice Presidente ARDeP

Quella lettera da Bruxelles

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