Cassazione, la ‘ndrangheta di Aemilia è realtà criminale autonoma
Pochi giorni fa sono state depositate le motivazioni della sentenza di Cassazione che, il 24 ottobre 2018, aveva confermato 40 delle 46 condanne del rito abbreviato del troncone principale di Aemilia.
La sentenza aveva confermato, anche nell’ultimo grado di giudizio, l’impianto accusatorio: la ‘ndrangheta emiliana ha agito in modo autonomo e si è radicata profondamente in regione. Un punto non scontato, che era stato contrastato in tutti i modi dalla difesa all’inizio di Aemilia nel 2015, a partire dalla richiesta di celebrare il processo non in Emilia-Romagna ma in Calabria, tentando così di allontanare l’attenzione e l’importanza del radicamento mafioso nella regione del Nord.
Il processo Aemilia e i suoi diversi filoni si sono invece celebrati tra Reggio Emilia e Bologna e le motivazioni della Corte di Cassazione ci restituiscono il senso di questa importante scelta: l’associazione di stampo mafioso che ha operato in territorio emiliano – per quanto riguarda i riti abbreviati tra il 2004 e il 2015, in particolare nelle province di Reggio Emilia, Modena, Parma e Piacenza – era collegata al sodalizio di ‘ndrangheta insediato a Cutro, ma autonoma rispetto ad esso. Già importanti sentenze precedenti avevano dimostrato questo aspetto – a partire da quelle dei processi Edilpiovra e Grande Drago – ma, in questo caso, la dimostrazione dell’autonomia ha assunto maggiore rilievo grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, a partire da Vincenzo Marino e Angelo Cortese.
Secondo le motivazioni della Corte di Cassazione – e come già emerso durante i processi di questi ultimi anni – la ‘ndrangheta emiliana è stata estremamente attiva nell’usura e nelle estorsioni commesso ai danni di imprenditori. Lo scopo dell’associazione mafiosa era – e continua ad essere – quello di infiltrarsi in maniera capillare in un tessuto economico florido e quindi “estremamente propizio all’affermazione degli organismi imprenditoriali in mano all’associazione, ovvero ad essa soggiogati, in pregiudizio alla libera concorrenza”.
Per questo motivo il gruppo mafioso ha costituito un consorzio di imprese attive nel settore dell’edilizia, ed in quelli a questo connessi, come l’autotrasporto, per “consentire alla locale emiliana e alla casa madre cutrese di estendere la propria operatività nell’area di riferimento e di conseguire rilevantissimi profitti”, che alimentavano una “vorticosa emissione di fatture false”. A queste condotte si affiancava tutto il sistema delle cosiddette “truffe carosello”, che permettevano il riciclaggio delle somme di provenienza illecita della cosca. Il meccanismo funzionava grazie a quei professionisti emiliani – come la commercialista Roberta Tattini – che hanno messo a disposizione dell’associazione mafiosa le proprie competenze.
In questo sistema criminale si intersecano anche altri personaggi condannati per concorso esterno in associazione mafiosa. Come scritto nelle motivazioni, “i vertici della cellula ‘ndranghetista emiliana intessevano rapporti con esponenti della società civile e, soprattutto, con il mondo politico in vista di uno dei primari fini perseguiti dall’associazione”, cioè quello di fare in modo che le iniziative imprenditoriali dell’associazione non venissero bloccate dalle interdittive antimafia.
Tra questi c’è Giuseppe Pagliani, ex capogruppo del Popolo della Libertà nel Consiglio Comunale di Reggio Emilia, accusato di aver contributo a rafforzare il gruppo ‘ndranghetista emiliano in cambio della promessa di un aiuto alle successive elezioni. Il politico aveva, tra l’altro, difeso alcuni dei mafiosi indicandoli pubblicamente come vittime di una “strategia mediatica e politica diretta a dipingerli come espressione della criminalità organizzata solo al fine di favorire le imprese emiliane autoctone”. La posizione di Pagliani, che aveva affermato di aver firmato il “patto” con l’associazione mafiosa solo per autodifesa dalla stessa, è una delle sei che dovrà essere giudicata nuovamente dalla Corte d’Appello per alcuni vizi argomentativi e di forma.
Oltre a quelli politici, altri importanti rapporti erano quelli con esponenti delle forze dell’ordine, che “si prestavano a fornire il loro contributo alla conservazione e al rafforzamento della cellula emiliana, mediante l’offerta di notizie riservate o mediante la dissuasione di chi diffondeva notizie a livello mediatico pregiudizievoli per l’immagine degli affiliati”.
In particolare quest’ultimo aspetto ci ricorda non solo le continue negazione degli imputati condannati che diverse volte, nel corso del processo, hanno tentato di sminuire la condotta criminale e la forza di un’associazione che veniva definita non “mafiosa” ma “imprenditoriale”, ma anche quella di tutti coloro che, negli anni, hanno pensato che le mafie in Emilia-Romagna non fossero pericolose: non è così e queste motivazioni ne sono l’ennesima conferma.
CS Libera Emilia-Romagna_Cassazione_Aemilia_2019
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Aemilia. La Cassazione mette un punto: la ‘ndrangheta emiliana è una realtà criminale
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