DIA e forze di polizia, sole contro le mafie italiane e straniere
Dunque, il Ministro dell’Interno, come prescrive la legge, ha presentato nei giorni scorsi al Parlamento la relazione sull’attività svolta e i risultati conseguiti dalla DIA e dalle forze di polizia nel primo semestre del 2018.
Si tratta della quarantesima relazione (semestrale) a far data dal 1998 consultabile sul sito della Polizia di Stato e stavolta anche della più corposa in assoluto: ben 516 pagine (nel 2017, le due relazioni semestrali erano state di 334 e 385 pagine).
Una relazione, come di consueto, chiara, esauriente e anche preoccupante per le dimensioni che fornisce ancora una volta sulla criminalità organizzata nel nostro Paese, sugli affari illeciti che gestisce, sulle sue proiezioni in ambito internazionale.
Una relazione che, temo, sia destinata ancora a produrre ben pochi risultati, intendo sul piano politico, di iniziative che si dovrebbero adottare per contrastare gruppi, bande e organizzazioni criminali, italiani e stranieri, sempre più “padroni” di consistenti porzioni del territorio nazionale. La lotta contro queste varie forme di criminalità non può essere più soltanto un compito affidato alle sole forze di polizia e agli investigatori della DIA, che pure ci mettono tutto l’impegno necessario.
E’ sufficiente leggere i dati complessivi delle ordinanze di custodia cautelare in carcere eseguite dal 1992 al 31 dicembre 2018 contro le mafie nostrane e quelle straniere: 3.167 contro la camorra, 2.796 per la ‘ndrangheta, 2.139 per cosa nostra, 802 per la criminalità organizzata pugliese e 1.597 per altre organizzazioni incluse quelle di matrice straniera. Un totale di 10.502 persone.
Consistenti anche i valori dei beni mobili e immobili sottratti alle suddette organizzazioni criminali nel periodo indicato in virtù di sequestri (art. 321 cpp e d.lgs 159/2011) per un totale complessivo di oltre 24 miliardi di euro (in prevalenza sottratti a Cosa nostra) di cui circa 11 miliardi confiscati.
Tra le novità introdotte nelle relazione DIA 2018, si rileva, per la prima volta, un paragrafo, nel contesto della criminalità organizzata pugliese e lucana, riservato alla “Presenza criminale in Basilicata” nelle due province di Potenza e di Matera, a sottolineare, credo, la dimensione criminale che vanno assumendo in quei territori alcune consorterie.
Una ottantina di pagine, poi, vengono riservate alle “proiezioni della criminalità organizzata sul territorio nazionale”, dove ben 15 regioni registrano presenze in affari illeciti di cellule delle mafie.
L’altra novità è rappresentata dalle oltre venti pagine riservate alla “criminalità nella città di Roma”, fenomeno che, come noto, aveva suscitato non poche polemiche politiche e al quale magistratura e polizia giudiziaria hanno dato, comunque, sollecite risposte (sul piano della prevenzione si doveva sicuramente fare di più in passato).
Continuano a destare allarme negli apparati della sicurezza le varie organizzazioni criminali straniere da tempo insediatesi in Italia e, in alcuni casi divenute stanziali. Gli ambiti criminali più interessati sono sempre il traffico e lo spaccio di stupefacenti, l’immigrazione clandestina, il lavoro nero, la contraffazione, i reati contro il patrimonio.
La criminalità albanese e quella nigeriana si confermano tra le più attive nel traffico di stupefacenti, nello sfruttamento della prostituzione, nella tratta di esseri umani e nella riduzione in schiavitù. Lo scenario criminale si completa con presenze fitte e ramificate su buona parte del territorio nazionale della criminalità cinese, di quella romena, sudamericana e nordafricana.
I 260 cittadini romeni denunciati all’a.g. per reati associativi nel corso del primo semestre 2018, sono stati i più numerosi seguiti dagli albanesi (201), dai nordafricani (180) e dai cinesi (55).
Una situazione della sicurezza, in generale che richiederebbe una concentrazione di iniziative politiche e tecniche straordinarie per tentare di ridurre, una volta per tutte, la criminalità organizzata ad un “tollerabile fastidio”.
La criminalità sudamericana, un fenomeno da non sottovalutare
Prima o poi si dovrà affrontare, con rinnovato impegno, il problema della presenza nel nostro Paese di gruppi della criminalità sudamericana. Non è, sia chiaro, quella più “ingombrante” tra le diverse gang straniere che hanno trovato la “pacchia” in Italia e tra queste annoveriamo la criminalità albanese, quella romena, cinese, nigeriana e nordafricana.
E, tuttavia, segnali di allarme continuano ad arrivare anche da affidabilissime istituzioni come la Direzione Investigativa Antimafia che, sempre nell’ultima relazione, annota come “..resta alta la pericolosità delle “gang” dei latinos, le cosiddette pandillas, diffuse soprattutto nelle aree metropolitane di Genova e Milano..”.
Ora, che il nostro sia (ancora) un Paese accogliente e generoso è ben noto, che, però, sia diventato quello, tra i paesi democratici, il più appetibile per i delinquenti, come sottolineava la Commissione parlamentare Antimafia nelle sua relazione conclusiva di un anno fa, è particolare inquietante che avrebbe dovuto indurre a serie riflessioni. Da parte di tutti, a cominciare dai parlamentari cui la relazione era diretta (in quanti l’hanno letta o soltanto sfogliata?), alla attuale classe politica dirigente, ai cittadini. Nulla di tutto questo si è notato e così si va avanti, fino alle prossime relazioni istituzionali (DIA, DNAA, DCSA) che continuano a disegnare drammatici scenari criminali (anche risultati investigativi) in continua evoluzione.
Come per le mafie nostrane che, silenziosamente, hanno aperto uffici di rappresentanza per i loro “affari” in ben quindici regioni italiane, dodici paesi europei (Spagna, Francia, Regno Unito, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania,Austria, Slovacchia, Albania, Romania, Malta), otto extraeuropei (Canada, Stati Uniti d’America, Messico, Colombia, Argentina, Federazione Russa, Giappone, Australia) come segnala l’ultima relazione DIA.
Sono le nostre mafie che si avvalgono per i traffici di droga dei sodalizi sudamericani nei quali vanno ricompresi “..componenti di origine boliviana, colombiana, venezuelana, dominicana, peruviana ed ecuadoriana..”. E sono proprio questi ultimi ad aver costituito, in particolare nelle aree metropolitane di Genova e Milano, le “pandillas”, vere bande (composte da 30-40 elementi) che “..si dedicano allo spaccio di stupefacenti, a scippi ed aggressioni, danneggiando anche beni pubblici e privati”.
La nascita di queste bande, favorita dalle “..condizioni di disagio gravitanti intorno ad immigrati con un retroterra di esperienze criminali maturate i madrepatria..” (in particolare in Ecuador, El Salvador), ha determinato, nel tempo, una conflittualità tra le stesse formazioni malavitose per acquisire “il controllo delle attività criminali nel territorio di insediamento”. Si tratta di bande formate da giovani sudamericani “gerarchicamente strutturate e con figure apicali di riferimento..” come segnalavano gli esperti della DIA sin dal 2013, con reclutamenti anche di giovani nordafricani ed italiani ai quali vengono imposti riti di affiliazione e prove di coraggio particolarmente cruenti come emergeva nella relazione DIA di due anni dopo. Modalità di reclutamento che, secondo risultanze investigative, sono state ulteriormente ampliate per acquisire nuove risorse umane aprendo anche a slavi, asiatici e nord africani “..purché capaci di dimostrare le proprie capacità delinquenziali”.
Una sorta di “casting criminale” per poter entrare a far parte della pandilla che non è una novità se si pensa alle dure prove da superare per entrare in una delle “associazioni” criminali nigeriane insediatesi in alcune regioni italiane.
Un quadro generale, dunque, molto pericoloso per la sicurezza dei cittadini e delle stesse istituzioni che necessiterebbe della massima attenzione politica e di iniziative straordinarie. Tutte cose che non si vedono all’orizzonte.
La lotta alle mafie, anche quella albanese, diventi una priorità
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