2.Una città desolata
Oggi Gela è
la quinta città siciliana, una delle pochissime città ad essere amministrata
dal centrosinistra dopo la sconfitta del Partito Democratico e la vittoria
schiacciante dell’MPA di Raffaele Lombardo. Conta circa 80 mila abitanti,
migliaia di vani abusivi, una rete fognaria non degna di questo nome,
un mercato con 4 mila bancarelle e una sola libreria. È triste da mozzare
il fiato. Fondata intorno al 689 a.C (la fonte è Tucidide), raggiunse
il massimo splendore sul finire del V secolo ai tempi di Gelone, tiranno
di Siracusa. Una lapide ricorda che Eschilo morì qui nel 456. Forse
ebbe modo, già allora, di osservare lotte fratricide. Trecento anni
più tardi, la città fu rasa al suolo. Rinacque nel 1230 per volontà
di Federico II che le diede nome Terranova.
Ritornò a
chiamarsi Gela solo nel 1927. Fino agli anni 50, il re di Svezia veniva
a passarci l’estate. Poi l’Eni trovò il petrolio, Enrico Mattei
convinse lo Stato a investire e il destino della città, dei suoi abitanti
e degli abitanti delle campagne circostanti, cambiarono. Alla fine degli
anni 60 l’Enichem dava lavoro a 12 mila persone. Oggi gli interni
non superano le 2000 unità, mentre i lavoratori dell’indotto non
arrivano a 1000. Oggi Gela è una specie di bigino della sconfitta e
dei tempi che cambiano. Qui si misurano, in maniera drammatica, molte
contraddizioni del secolo scorso e quasi tutte quelle attuali della
sinistra italiana. I contrasti tra industria e ambiente, tra lavoro
e salute, tra diritto alla casa e abusivismo occupano il campo, disperdendosi
in violente beghe intestine. Della felicità, come aspirazione degli
oppressi, neanche a parlarne.
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