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Il compleanno del boss-viveur
La caccia a Messina Denaro continua

Di Rino Giacalone il . Sicilia

Un ragazzino dodicenne che si avvicina
alla cassa di un negozio per pagare il giocattolo scelto, e la mano
di un adulto che lo precede e gli sorride, chiedendogli in cambio di
porgere a casa i suoi più cari saluti. Una scena che risale a un pomeriggio
del 1974, a Castelvetrano: quel ragazzino oggi è cresciuto, ed è l’attuale
super latitante di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro, 47 anni, compiuti
oggi, ricercato da 16 anni, dall’estate del 1993; l’altro invece è
un insegnante, Tonino Vaccarino, professore, politico, sotto inchiesta
per mafia e droga. Infine infiltrato in malo modo dai servizi segreti
nella cosca belicina con l’obiettivo, fallito, di stanare il super latitante.
Quell’episodio lontano nel tempo è raccontato in una corrispondenza,
svelata oramai da tempo, tra Messina Denaro, e Tonino Vaccarino, alias
Svetonio. La ricorda proprio il super boss latitante: «In quel momento
lei mi ha fatto sentire la persona più importante del mondo». Matteo
era allora giovanissimo, un «arzune», come si dice da queste nostre
parti, e non aveva piena coscienza di ciò che lo circondasse. Lo conquistò
il fatto che il riguardo riservato a lui era ancor più rivolto al padre,
il patriarca della mafia belicina Francesco Messina Denaro, di cui Matteo
resta «il fedele erede». 

Matteo Messina Denaro è oggi il capo
incontrastato della mafia della provincia di Trapani, ma è divenuto
anche punto di riferimento del mandamento palermitano di Brancaccio
che come organizzazione assomiglia molto a quella che il capo mafia
belicino ha dato ai suoi più diretti mandamenti, quelli di Trapani,
Castelvetrano, Alcamo e Mazara; quelli cioè in cui l’attività mafiosa
è diventata sostanzialmente imprenditoriale, in grado di agire nei
settori dell’economia e quindi, per la ricchezza di risorse, di interloquire
con la politica, con grandi capacità di camuffamento, e contando sempre
su un’utile, spesso idiota, incredulità «della maggior parte del tessuto
sociale». Matteo Messina Denaro comanda nel palermitano anche per i
legami «familiari»: Brancaccio è il famoso rione sotto il controllo
della famiglia Guttadauro; Filippo Guttadauro è cognato del boss latitante,
avendone sposato la sorella, Rosalia. Il vero potere di questo rampante
quasi cinquantenne è nei segreti di cui è depositario. Il padre Francesco
gli ha consegnato un archivio di ben avviati contatti affaristici, sostengono
i pentiti che un tempo gli erano vicini. Poi sono stati i «vecchi»
di Cosa Nostra, Totò Riina e Leoluca Bagarella, ad affidargli il più
importante archivio della mafia siciliana, quello che fu portato via
in tutta fretta dalla casa covo di Totò Riina il 15 gennaio 1993, qualche
ora dopo l’arresto del «padrino» corleonese.  

Matteo Messina Denaro ha creato due strutture
parallele: «Nella prima ci sarebbero imprenditori apparentemente puliti
attraverso i quali il boss intrattiene collegamenti con i politici e
quindi controlla gli appalti; nell’altra vi sono i boss e la manovalanza
mafiosa». L’attacco mafioso contro l’economia legale è continuo, ma
lo Stato ha come calato la tensione, tagli al bilancio ministeriale,
modifiche ai codici, hanno svuotato di potere le forze dell’ordine.
Oggi poi il pool di magistrati antimafia a Palermo impegnati nel coordinare
la ricerca di Messina Denaro si è ridotto, nel quasi totale silenzio.
Resiste un «pugno» di investigatori. È come se alla fine sia passato
il messaggio di chi sostiene che «la mafia non esiste». Sappiamo però
che non è, purtroppo, così. 

Boss e «viveur» 

Le più recenti indagini  confermano
che il «pensiero» mafioso di Messina Denaro non è cambiato, è lo
stesso di quello che anni addietro confidava ad una delle sue donne.
A Sonia scriveva: «Devo andare via, non posso spiegarti le ragioni
della mia scelta. In questo momento le cose depongono contro di me,
sto combattendo per una causa che non può essere capita. Ma un giorno
si saprà chi stava dalla parte della ragione». La filosofia dell’uomo
forte della nuova mafia, quella che ha adottato, dopo stragi e omicidi,
la strategia della sommersione è tutta qui. Per Matteo Messina Denaro
la guerra di Cosa Nostra allo Stato è una guerra giusta. A 14 anni
già sparava. A 18 uccideva. A 31 metteva le bombe al Nord, prima a
Roma, contro Maurizio Costanzo e la Chiesa, poi a Firenze e Milano.
Oggi è a capo di una holding imprenditoriale: donne, affari, appalti,
e grandi imprese. Matteo Messina Denaro è un  mafioso di altra
generazione, è soprattutto un gran viveur. Qualcuno lo ricorda mentre
scorazzava in Porche verso Selinunte. Pantaloni Versace, Rolex Daytona,
foulard. Quando Riina lo incaricò di pedinare Falcone, Martelli e Maurizio
Costanzo a Roma, a fine ’91, lui -racconta uno dei boss ora pentito
che lo accompagnava, il mazarese Vincenzo Sinacori – trovava sempre
il tempo di fare una buona scorta di camicie nel negozio più esclusivo
di via Condotti e andava a mangiare nei locali più «in». Confuso
fra la bella gente, aiutato, ieri come oggi, dal fatto che lui non ha
la faccia da vecchio mafioso siciliano. Ma il volto è quello della
nuova mafia, fatta da professionisti e «colletti bianchi». 

Matteo Messina Denaro è tra i criminali
più ricercati dalle polizie di tutto il mondo. Si colloca infatti al
quinto posto nella speciale classifica di «Forbes» dedicata ai latitanti
appartenenti al «gotha» del crimine planetario, dove il primo in assoluto
è Osama Bin Laden. Cos’è oggi la mafia trapanese guidata da Matteo
Messina Denaro è scritto in una delle relazioni conservate in una stanza
del Parlamento, presso la Commissione nazionale antimafia. Nel capitolo
riguardante Trapani si attesta che qui Cosa nostra ha chiuso il cerchio
e completato la fase di intromissione nel tessuto sociale ed imprenditoriale.
A Trapani ha preso piede il predominio di quel livello mafioso «dove
non ci sono per forza “punciuti”, ma soggetti comunque in
grado di gestire grandi risorse», il «terzo livello» degli uomini
d’onore, dove restano in auge i vecchi «consigliori» e a disposizione
i gruppi di fuoco, che però è come se fossero stati invitati, per
ora, a non esporsi. Matteo Messina Denaro si è accertato ha contatti
diretti col Sudamerica – e questo significa potere gestire affari del
narcotraffico – e ha ripreso i contatti con le «famiglie» americane.
«Il fatto grave – si legge in una relazione depositata negli archivi
della commissione nazionale antimafia – è quello che si faccia finta
di non assistere ad uno stravolgimento delle regole di mercato». In
questo contesto c’è chi invece di mafia preferisce parlare dell’antimafia,
che può avere fatto degli errori ma che non sono mai gravi quanto quelli
commessi da quanti ai boss hanno tenuto, e tengono, bastone e cappello
come maggiordomi. 

Nel giorno del compleanno del boss latitante,
la caricatura raffigurante il giovane “padrino”, che punta
l’indice in alto, quasi fosse un santo, e tine vicino il bocciolo di
un fiore, è comparsa a Castelvetrano, sovrapposta ad uno dei graffiti
realizzati dai giovani che lo scorso dicembre parteciparono alla carovana
antimafia di Libera. Il volto che chiaramente rassomiglia a quello di
una delle foto segnaletiche del capo mafia latitante dal 1993 è stato
riprodotto su un muro interno del parcheggio comunale Salina di via
Cordova, in pieno centro storico e a poche decine di metri dal Municipio.
«Mi addolora profondamente pensare – ha commentato il sindaco Gianni
Pompeo – che ci possa essere qualche mio concittadino che possa idolatrare
un boss che ha dimostrato la sua ferocia ed il suo sprezzo dei valori
più alti che animano il nostro operato» «Non so se in questo vile
atto si possa leggere un messaggio intimidatorio o semplicemente uno
stupido desiderio di mitizzare un personaggio totalmente negativo –
aggiunge -. In entrambi i casi non posso che condannare con fermezza
l’episodio ed auspicare che la sinergica azione delle forze dell’ordine
possa dare presto un volto all’autore del gesto».  Esattamente
un anno fa un altro graffito riproducente la faccia del latitante, ricercato
da 16 anni,  venne ritrovato su una parete dei nuovi uffici comunali
di contrada Giallonghi realizzati su un fondo confiscato alla mafia.

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