Decreto Sicurezza e lotta alle mafie, qualcosa non torna
Scorrendo l’articolo 36 comma 3 del testo del Decreto Sicurezza del governo, in questi giorni in discussione in Parlamento, sul tema dei beni confiscati alle mafie, si legge: “ I beni di cui al comma 3, di cui non sia possibile effettuare la destinazione o il trasferimento per le finalita’ di pubblico interesse, sono destinati con provvedimento dell’Agenzia alla vendita, osservate, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura civile.
Si assiste dunque a un passo indietro rispetto a quanto previsto dalla Legge 109/1996, nata dopo la raccolta di firme portata avanti nel 1995 da Libera attraverso una proposta di legge di iniziativa popolare che raccolse quasi un milione di firme.
Si trattava di una delle poche proposte nate dai cittadini che il nostro Parlamento è riuscito poi a trasformare in legge dello stato.
Tra l’altro una proposta di legge di iniziativa popolare che prende spunto dalla Legge 646 del 1982, la cosiddetta Legge Rognoni – La Torre che ha introdotto l’articolo 416 bis nel codice penale sui reati di tipo mafioso, vero e proprio tassello della lotta a questo tipo di organizzazioni criminali, che è costata la vita a Pio La Torre.
Proprio in quella Legge era stata inserita la confisca dei beni sottratti alle organizzazioni mafiose, e dal 1996 con la legge n.109 si è previsto il loro riutilizzo pubblico e sociale a favore delle comunità.
Un vero e proprio colpo basso per le mafie, perchè vedere i beni acquisiti attraverso l’utilizzo del potere, dei crimini e della forza di intimidazione, essere utilizzati da comuni, associazioni, cooperative per scopi sociali e di interesse pubblico, è per i mafiosi, uno degli “affronti” più forti e duri da sopportare.
Ma c’è un altro grave rischio che lo Stato corre mettendo in vendita i beni confiscati, quello che questi beni possano tornare in mano alle organizzazioni mafiose, le uniche che dispongono di una grande liquidità di denaro.
Certo il Decreto Sicurezza prevede tutta una serie di norme a garanzia che questo non accada, ma oggi la capacità dimostrata in tante occasioni da parte delle mafie di sapersi muovere all’interno dei meccanismi di garanzia (aste truccate, prestanome, corruzione, intimidazioni, ecc…) non permette a nessuno di essere sicuri che questo non accada.
Non vorremmo che, tra qualche anno, a seguito di indagini e processi futuri si arrivi a confiscare beni a mafiosi che erano già stati confiscati anni prima ad altri mafiosi e poi messi in vendita. Una possibilità tutt’altro che remota.
Ma a parte questa eventualità, che sarebbe veramente devastante per la legalità del nostro paese, vi è un aspetto ancora più inquietante in questa norma inserita nel Decreto Sicurezza: quella della accettazione di una sconfitta dello stato di diritto e il riconoscimento di un fallimento verso quella che è stata una chiara indicazione venuta nel 1996 dal popolo italiano che aveva invitato lo stato ad agire in un determinato modo, ovvero utilizzando per fini pubblici e sociali i beni confiscati alle mafie.
Certo le difficoltà per la gestione dei beni confiscati sono tante: un’ Agenzia che non funziona, che non ha personale a disposizione, comuni lasciati soli nella individuazione di progetti di recupero e della successiva gestione, fondi inesistenti, ma ci sono anche tanti esempi positivi, soprattutto al sud, dove tanti di questi beni sono oggi gestiti da aziende, cooperative, associazioni, gestite nella piena legalità.
Esempi che se portati avanti e ampliati, creano cultura, una cultura della legalità e della partecipazione al bene comune che è uno dei compiti principali dell’azione politica.
Uno stato non può arrendersi mettendo in vendita una parte consistente dei beni confiscati, perchè sarebbe come ammettere una grave sconfitta del nostro paese di cui pagheremo le conseguenze nei prossimi anni e segnerebbe un passo indietro nella lotta alle mafie.
Diceva Paolo Borsellino “Mafia e stato sono due elementi che si contendono il controllo del territorio, quando non si fanno la guerra trovano forme di convivenza” .
Vendere i beni confiscati non mi sembra un bel modo di continuare a fare guerra alle mafie.
Occorre ripartire dalle parole di Kant
Sono giorni tristi quelli che stiamo vivendo con la fiducia votata alla Camera per la conversione in legge del cosiddetto decreto sicurezza e la decisione del governo di non firmare il Global compact for migration fino a che il Parlamento non si pronuncerà in merito, venedo meno a quanto annunciato a settembre all’Onu dal Premier Conte e dal Ministro degli Esteri Moavero.
Il decreto sicurezza da oggi è una legge che favorira’ l’aumento di cittadini stranieri che saranno trattati come “clandestini” dopo che fino a ieri potevano usufruire di un permesso di soggiorno per motivi umanitari; favorirà la chiusura degli Sprar, sistema di eccellenza riconosciuto dall’ONU, che permetteva ai comuni di avere un controllo su queste persone ed a loro una possibile integrazione senza gravi ripercussioni nel contesto sociale dove vivono; amplierà il numero di persone che finiranno nelle mani delle organizzazioni criminali; renderà meno sicure le nostre città.
Sono giorni tristi come lo furono quelle del 30 luglio del 2002 con l’approvazione della legge Bossi – Fini e il 23 aprile del 2009 con la conversione in legge del decreto sicurezza di Maroni.
Leggi che nel tempo hanno fatto crescere la percezione nei cittadini che il “clandestino” è un criminale e lo straniero che vive qui da noi solo un ostacolo e un peso.
Un’escalation culturale che spinge il nostro paese ad alzare muri sempre più alti, ad individuare il suo nemico nel cittadino straniero, ad un isolamento sempre maggiore nel contesto europeo e ora anche all’Onu, al disconoscimento dei valori che hanno fatto grande nel mondo il nostro popolo.
Sembra strano, ma proprio coloro che a parole dicono di voler difendere i valori e le tradizioni dell’Europa, sono invece i primi a rinnegarli ed a svuotarli di senso e concretezza.
Ma c’è anche una sfera personale della vita che vede molte persone reagire democraticamente e dire no a questo modo di intendere la convivenza tra gli uomini.
Vengono in mente le parole di chi, come Kant, nei secoli scorsi ha contribuito a dare un’anima alla nostra Europa: “Ospitalità significa il diritto di uno straniero, che arriva sul territorio altrui, di non essere trattato ostilmente”.
Da queste parole, anche se ci vorra’ tempo, si deve ripartire, operando ogni giorno per favorire, ciascuno nella nostra vita, atteggiamenti di accoglienza e non di rifiuto e di ostilità.
Appello delle associazioni: no alla vendita dei beni confiscati
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