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Cesare Terranova: Cosa nostra alla sbarra per la prima volta

Luca Gulisano il . Mafie

Cesare_Terranova«Però giudice Terranova ce n’è uno solo sulla terra…come gliel’ho detto, lo dico e lo firmo col mio sangue. Però onesto come Terranova non ce n’è sulla terra, e noi due possiamo fare battaglia dicendo sempre la verità e con coscienza». Tuonava così davanti a un giornalista Serafina Battaglia, una delle prime donne a infrangere, persino in un’aula di tribunale, “il muro di impenetrabile silenzio”, l’omertà tipica della mafia siciliana, gridando il nome dell’unico magistrato che aveva ascoltato il suo dolore.

La storia di Terranova comincia in un paesino della provincia di Palermo, Petralia Sottana, dove il padre era un pretore, poi trasferitosi con tutta la famiglia a Messina. Nella città dello stretto Terranova, figlio d’arte, si laurea in legge dopo aver prestato servizio militare e aver scontato la prigionia in Africa, in cui arrivò a barattare i pantaloni per un pezzo di pane, ma dove conobbe anche il bridge, una delle sue grandi passioni. Solo dopo essere stato indurito dalle sofferenze della trincea, Terranova decide di seguire le orme paterne ed entra in magistratura.

Dopo i primi incarichi pretorili a Messina e Rometta, inizia la sua carriera di giudice istruttore al tribunale di Patti, per poi trasferirsi nel 1958 a Palermo. Solo un anno prima, nell’ottobre del 1957 proprio a Palermo, all’Hotel delle Palme, si tiene un summit destinato a fare la storia della mafia: i nomi più importanti di Cosa nostra siciliana e americana (spiccavano Lucky Luciano, Genco Russo e Joe Bonanno) decidono di rimpiazzare Cuba come canale di transito per l’importazione di stupefacenti negli Stati Uniti, assegnando questo delicato e promettente incarico alle famiglie siciliane. Allora le istituzioni non si resero conto che il coinvolgimento nel narcotraffico costituirà per la mafia isolana il primo passo di un’ascesa vertiginosa, conferendole, nel tempo, una liquidità economica di gran lunga superiore a quella prodotta dalle estorsioni, dalla macellazione clandestina e dai traffici con cui in Sicilia la mafia si manifestava ormai da quasi un secolo. Dalla fine degli anni ’50 le cosche siciliane vedono nella droga e nell’edilizia il vero business per il quale arrivare anche a farsi la guerra, eventualmente.

L’ironia della storia si nasconde dietro le date. Nel 1963 il sociologo Domenico De Masi, nel suo Sopraluogo nella Sicilia della mafia, sosteneva che la mafia era «allo stadio finale», del tutto trasformata «nella forma meglio estirpabile di gangsterismo», e proprio il 30 giugno del 1963, a Ciaculli, una borgata agricola palermitana fino a quel momento famosa per i “marzuddi” (i mandarini tardivi che maturano a marzo), una Giulietta imbottita di tritolo, la prima di una lunga serie, salta in aria uccidendo ben sette esponenti delle forze dell’ordine: Cosa nostra non stava finendo affatto e la trasformazione in corso l’avrebbe resa solo più determinata nell’adempimento delle sue logiche di potere. La strage di Ciaculli è l’evento più eclatante della “prima guerra di mafia” che vede contrapposte, per il controllo del narcotraffico, le famiglie mafiose dei Greco e dei La Barbera.

Il tritolo ha sempre avuto il merito di svegliare le coscienze e di schiarire le idee in Parlamento. Mentre a Roma iniziano davvero i lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, il giudice istruttore Cesare Terranova, da poco arrivato a Palermo, sta mettendo mano al primo grande processo a Cosa nostra, leggendo un discreto numero di rapporti informativi, i cosiddetti “rapportoni”, estesi dalla polizia e dai carabinieri sulla base quasi solo di confidenze e di mere ricostruzioni: erano le fondamenta, spesso esclusive, per l’istruzione dei processi penali. I rapporti di Polizia del maggio e del luglio 1963 raccontano le trame criminali dispiegatesi a Palermo tra il 1952 e il 1963 e portano Terranova a stendere due diverse sentenze di rinvio a giudizio (quella del 23 giugno 1964 “Contro Angelo La Barbera + 37” e quella dell’8 maggio 1965 “Contro Pietro Torretta + 53”), poi integrate in un medesimo procedimento che mirava a dimostrare la stretta connessione delle diverse azioni delittuose, in primis il traffico di stupefacenti, e l’esistenza di vincoli associativi fra tutti gli imputati, tracciando il disegno di una comune società votata al crimine. Se le relazioni commerciali che coprivano il narcotraffico tra Sicilia e America erano già state menzionate in altri processi, Terranova è il primo a parlare di attività criminali dirette e coordinate da un organismo unico, la Commissione, formata dai più potenti e carismatici boss mafiosi: questo lo spingeva a dare una valutazione unitaria del fenomeno mafioso, ben diversa da quella diffusa presso la maggior parte dei giudici e degli intellettuali italiani del tempo.

Negli stessi anni, nella stanza numero cinque dell’Ufficio Istruzione di Palermo, dove lavora Terranova, si affastellano i rapporti su un criminale in carriera, già coinvolto nelle indagini sopra menzionate: il corleonese Luciano Leggio (Liggio per le cronache, a causa di un antico errore di battitura). Corleone è una cittadina che sorge alle spalle di Palermo, con un nome che fa pensare ai romanzi di Walter Scott: pochi giorni fa è balzata alle cronache per due lodevoli iniziative antimafia alla memoria proprio del giudice Terranova e delle due sorelline Caterina e Nadia Nencioni, uccise dalla bomba a via dei Georgofili a Firenze nel 1993. Negli anni ’50 comandava su tutti il medico condotto del paese, Michele Navarra, boss della mafia locale, generoso e potente a tal punto da guadagnarsi il soprannome di “patri nostru” presso i suoi compaesani e i suoi seguaci. Fra questi spicca proprio Liggio, all’apparenza un campiere innocente e storpio a causa del morbo di Pott, ma in realtà pronto a tutto per obbedire all’atavica legge siciliana: mangiare carne, cavalcare carne, comandare carne. Dopo aver organizzato l’omicidio di Navarra, Liggio scatena, nel quinquennio 1958-1963, una sanguinosa guerra a Corleone per eliminare i “navarriani” e proclamarsi unico dominus mafioso. Questo conflitto viene brillantemente raccontato in un rapporto, La mafia in Corleone, redatto fra il 1963 e il 1964 dal vicebrigadiere Agostino Vignali, comandante della squadra di polizia giudiziaria di Corleone. Il rapporto viene trasmesso al tribunale di Palermo, dove Terranova, già a partire dall’autunno del 1963, sta rovistando negli archivi per trovare le carte di tutti i procedimenti, anche quelli già dibattuti, che avevano riguardato Liggio.

In quel rapporto Vignali si sofferma anche sulle origini della mafia a Corleone e in Sicilia e non esita a individuare nei potenti legami di Navarra con elementi di spicco della Democrazia cristiana (Aldisio, Scelba ecc.) la vera origine del suo carisma dominante tra Palermo e Corleone. È indubbio che Terranova, stendendo le due sentenze di rinvio a giudizio per i fatti di sangue di Corleone dal 1955 al 1963, tiene ben presenti le pagine di quel rapporto, che, per l’epoca in cui viene scritto, è straordinariamente incisivo nell’evidenziare l’urgenza di una politica che modifichi «strutturalmente e concretamente le condizioni ambientali in cui vive la maggior parte del popolo siciliano». Vignali prefigurava anche che gli interessi economici delle principali cosche mafiose, corleonesi e non, si sarebbero presto spostati dal furto di bestiame al predominio delle aree edificabili e delle pubbliche e private amministrazioni. La storia gli darà sonoramente ragione.

Terranova e Scaglione, l’allora procuratore capo della Repubblica di Palermo, speravano certamente che questi processi si sarebbero celebrati a Palermo, come accadrà, nel 1986, per il maxiprocesso istruito dal pool di Caponnetto. La Suprema Corte di Cassazione decide, invece, di allontanare il dibattimento dai temuti condizionamenti ambientali e di trasferirli alle assisi di Catanzaro e Bari, sulla base di un istituto giuridico molto fortunato in quell’epoca, la legittima suspicione: un “legittimo sospetto”, che consente di rompere il legame fra un processo e una corte giudicante competente per materia e territorio, per affidarlo a un giudice di un’altra corte, così com’era già accaduto con i processi per la strage di Portella della Ginestra (1947) e per l’omicidio del commissario Cataldo Tandoy (1960), giudicati rispettivamente a Viterbo e a Lecce. Un sospetto legittimo, ma pericoloso. In Storie di donne Anna Puglisi presenta un’intervista a Giovanna Giaconia, la vedova di Terranova, che riferiva, a tal proposito, un giudizio del marito: «per giudicare i mafiosi, per capire l’ambiente in cui operano, per interpretare la dichiarazione dei testi, in gran parte reticenti, che dicono e non dicono, alla maniera siciliana, il magistrato in grado di emettere una vera sentenza è il giudice naturale».

Come volevasi dimostrare, quei processi finiscono in un nulla di fatto. Il 22 dicembre 1968 la Corte d’assise di Catanzaro, presieduta dal giudice Pasquale Carnovale, condanna 53 dei 117 imputati con pene che vanno dai 27 anni a pochi mesi; per il resto piove sugli imputati, come manna dal cielo, l’assoluzione con formula dubitativa, ovvero per insufficienza di prove: «un condono generalizzato» come lo ha ribattezzato Alfio Caruso. Ma dove si vanifica significativamente l’accusa impiantata da Terranova è a Bari: nonostante la richiesta del pm Domenico Zaccaria di tre ergastoli e 343 anni di carcere per gli imputati, fra i quali siede, con aria da gangster americano e col sigaro in bocca, Luciano Liggio, il presidente della Corte Vito Stea pronuncia ben 64 assoluzioni a favore dei 64 imputati sia per i numerosi omicidi che per il reato di associazione a delinquere: l’“Anonima Assassini”, come la stampa ha battezzato la banda di Liggio, è libera. Salvatore Riina, che oggi non ha alcun bisogno di presentazione e che già allora Terranova aveva qualificato come «un pericoloso mafioso», viene condannato a un anno e sei mesi per il furto di una patente: dopo quella sentenza comincerà una latitanza che finirà solo il 15 gennaio 1993, dopo una seconda guerra di mafia, dopo omicidi su omicidi, stragi su stragi.

Per capire davvero l’andamento di quei processi dobbiamo leggere i documenti che ne hanno fatto la storia. Le sentenze istruttorie di Terranova, prima di tutto. In quelle contro le famiglie mafiose palermitane il magistrato non esita a denunciare le infiltrazioni nelle attività edilizie e nelle concessioni di appalti fatte a favore di «elementi sospetti» da parte del Comune di Palermo, dove a partire dal 1958 il controllo dei principali affari passa dalle decisioni del gruppo democristiano di Lima, Ciancimino e Gioia. Mettendo al bando le fantasie romantiche e popolari che distinguevano la “vecchia” mafia, positiva e buona, dalla “nuova” mafia, feroce e impietosa, Terranova asseriva che «Esiste una sola mafia, né vecchia né nuova, né buona né cattiva (…) che è associazione delinquenziale di mafiosi, che si presenta ed agisce sotto molteplici forme, delle quali la più pericolosa e insidiosa è indubbiamente quella camuffata sotto la apparenza della rispettabilità, (…) definita da qualcuno (…) “mafia in doppio petto”, che è, purtroppo, più difficile da individuare e colpire adeguatamente». Con un altro nome, Terranova, trent’anni prima di “Mani pulite”, alludeva a quella che oggi chiamiamo “mafia dei colletti bianchi”.

Ma sulla delicata e importantissima definizione della mafia come associazione a delinquere avviene il vero scontro tra l’accusa e il giudizio. Terranova si dice sicuro che la mafia esiste sulla base della catena di delitti impuniti accaduti a Palermo e in vista dell’istituzione di una Commissione d’inchiesta apposita per il fenomeno mafioso siciliano. Egli punta a recuperare, come base dell’impianto accusatorio, il principio, ben chiaro già in epoca fascista, dell’identificazione della mafia con il concetto di associazione a delinquere: «La mafia non è un concetto astratto, non è uno stato d’animo né un termine letterario (…) ma è essenzialmente criminalità organizzata, efficiente e pericolosa», ben sorretta da un pilastro inossidabile, l’omertà, che dà ai mafiosi la consapevolezza che le vittime non denunceranno, né parleranno mai. Dalle motivazioni delle sentenze emesse si capisce che i giudici non ritennero sufficienti le dichiarazioni di testimoni d’eccezione come Serafina Battaglia a Catanzaro e Luciano Raia, uno dei primissimi pentiti di mafia, a Bari. Fin troppo eloquente la sentenza di Bari, del 10 giugno 1969, in cui si sostiene che «L’equazione mafia uguale associazione a delinquere, sulla quale hanno così a lungo insistito gli organi di polizia giudiziaria e sulla quale si è esercitata la capacità dialettica del magistrato istruttore, sia priva di apprezzabili conseguenze sul piano processuale»: la sentenza di Terranova viene giudicata alla stregua di un mero esercizio retorico, buono per un tema da concorso in magistratura. Diversamente un anno prima, il 22 dicembre 1968, la sentenza di Catanzaro, a dispetto delle critiche di lassismo che ha ricevuto negli anni, non ha affatto assolto tutti gli imputati, né ha fatto piazza pulita dell’atto istruttorio, come è accaduto a Bari: in modo attento e fondato, i giudici calabresi riprendono molte delle posizioni di Terranova, per concludere, però, che l’apparato di prove fornito porta a pensare all’«Esistenza di più associazioni a delinquere, ciascuna con propri capi, aventi finalità illecite differenti e con distinti programmi delittuosi», non a un’unica associazione, come ipotizzava l’accusa.

La strada era ancora molto lunga, ma è indispensabile ricordare questi eventi processuali e la loro preparazione: non ci sarebbero stati il primo maxiprocesso di Palermo e tutti gli altri fruttuosi processi di mafia, a partire dalla metà degli anni ’80, senza Catanzaro e Bari, che da un lato rafforzarono «la certezza dell’impunità» di Cosa nostra, ma dall’altro mostrarono chiaramente alla magistratura siciliana da cosa partire e cosa modificare per arrivare finalmente a condanne definitive.

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