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Lo sguardo che manca alla giustizia

Donatella Stasio il . Giustizia

sulla mia pelleIl film «Sulla mia pelle», che racconta la vicenda di Stefano Cucchi, sollecita molte riflessioni tra cui quella sull’impersonalità (brutale) delle istituzioni, compresa la giustizia, e sulle sue ricadute negative nel rapporto di fiducia con i cittadini. Un problema antico ma ricorrente e cruciale nella vita delle istituzioni, di cui i magistrati devono farsi carico con i loro comportamenti. Secondo Piero Calamandrei, bisogna che «anche nel processo circoli questo senso di fiducia, di solidarietà e di umanità, che è in tutti i campi lo spirito animatore della democrazia».

Sono andata a vedere «Sulla mia pelle», il film che racconta gli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi. Questo Controcanto non è una recensione del film. Che – voglio dirlo subito, sia pure per inciso – ha la forza travolgente dei fatti, raccontati senza mai cedere alla retorica, all’enfatizzazione, alla strumentalizzazione, e perciò lascia ammutoliti, forse per un senso di pudore, di incredulità o di rabbia, forse per un sentimento di pietà o magari di vergogna… .

Uno di quei fatti – peraltro stranoti alle cronache – riguarda un tema antico eppure cruciale per la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e, quindi, per la tenuta della democrazia: l’impersonalità assoluta (e brutale) delle istituzioni, compresa la magistratura. Di questo vorrei parlare, al di là del peso specifico che ha avuto la Giustizia nella vicenda di Cucchi.

Sebbene conosca e abbia frequentato i Tribunali, mi si è raggelato il sangue nel vedere la scena in cui Stefano – già livido e instabile per la “caduta dalle scale” – viene portato all’udienza per la convalida dell’arresto: da quel momento comincia un dialogo surreale con il giudice, degno di una commedia dell’assurdo se non fosse la drammatica fotografia di una quotidianità assai diffusa. All’imputato viene chiesto di declinare le sue generalità e di rispondere alle domande di rito: non solo non c’è alcun colore nella voce cantilenante del giudice, anche quando gli chiede se si ritiene colpevole o innocente, ma non c’è un solo momento in cui il giudice alzi la testa dalle carte per allungare lo sguardo verso l’imputato. Così, magari per curiosità… . Chissà, forse la lentezza della giustizia non può permettersi simili “lussi”? Del resto, come in una commedia dell’assurdo, ciascuno recita perfettamente la propria parte senza fare una piega (giudice, pm, avvocato, imputato, testimone, persino i familiari) e poi, dopo una breve camera di consiglio, esce il verdetto. Nella fattispecie, un mese di prigione… .

Francamente non capisco come la magistratura non percepisca la brutalità di questi comportamenti e non avverta l’urgenza di cambiarli. So che tanti magistrati ne sono mortificati ma al tempo stesso si sentono quasi rassegnati a questa forma di violenza, per mille ragioni, anche organizzative (carichi di lavoro troppo elevati, mancanza di personale e di risorse…). Scene così, infatti, si vedono in tanti Tribunali d’Italia, dove la giustizia viene amministrata come fosse una catena di montaggio ogni volta che ha di fronte a sé piccole storie di delinquenza, quelle che, però, finiscono per affollare di più le patrie galere (sempre che non finiscano prima per altre tristi ragioni). Se ne vedono in continuazione oggi come dieci, venti, trenta, cinquanta o sessant’anni fa.

Non a caso, negli anni ’50 Piero Calamandrei scriveva: «Il pericolo maggiore che in una democrazia minaccia i giudici e in generale tutti i pubblici funzionari, è il pericolo dell’assuefazione, dell’indifferenza burocratica, dell’irresponsabilità anonima. Per il burocrate – spiegava – gli uomini cessano di essere persone vive e diventano numeri, cartellini, fascicoli: una “pratica”, come si dice nel linguaggio degli uffici, cioè un incartamento sotto copertina, che racchiude molti fogli protocollati, e in mezzo ad essi un uomo disseccato. Per il burocrate – proseguiva Calamandrei – gli affanni dell’uomo vivo che sta in attesa non contano più: vede quell’incartamento inombrante sul suo tavolino e solo si cura di trovare un espediente per farlo passare sul tavolino di un altro burocrate, suo vicino di stanza, e scaricare su di lui il fastidio di quella rogna».

Come allora, anche oggi (persino tra i più giovani) c’è qualche giudice che interpreta il proprio ruolo in modo burocratico oppure teorizzando una superiorità e un distacco che non consentirebbero comportamenti più “umani”, mentre Calamandrei metteva in guardia proprio da ogni forma di divinizzazione della Giustizia o, più semplicemente, di “malcostume” giudiziario. Compreso quello del giudice che rimane per tutto il processo «muto e impenetrabile come una sfinge»: un comportamento stridente con i principi moderni del processo orale, «fondato sulla collaborazione diretta tra il giudice e gli avvocati» osservava Calamandrei. «Certi giudici attaccati alla tradizione – scriveva – credono che per meglio conservare la loro dignità e la loro autorità di fronte agli avvocati sia indispensabile assumere un’impassibile solennità da idoli, mettendo tra loro e i difensori un diaframma di burbanza». Per fortuna, aggiungeva, ci sono magistrati che hanno “il coraggio” di rompere questa barriera e di dialogare con le parti del processo. «Bisogna abolire la tradizionale clausura e lasciare che anche nel processo circoli questo senso di fiducia, di solidarietà e di umanità, che è in tutti i campi lo spirito animatore della democrazia».

Questo monito di Calamandrei è ancora valido. L’impersonalità della Giustizia – che si traduce in burocratica gestione del processo – nuoce alla fiducia del cittadino nell’istituzione. Che non deve certo rincorrere il consenso ma che ha bisogno della fiducia come del pane. A questo scopo, più delle dotte sentenze contano i comportamenti attraverso i quali si comunica un “senso di giustizia”, in cui è compreso anche il rispetto nei confronti delle persone.

Non potrò mai dimenticare le parole di Gianluca, un giovane ex detenuto, uno di quelli che “ce l’hanno fatta” dopo molti processi e molti anni di carcere: «Per decenni, nei tribunali e nelle carceri, sono stato trattato come un fascicolo: ero un numero, una matricola. Non ero una persona. Soltanto quando sono arrivato nel carcere di Bollate mi hanno finalmente fatto sentire una persona. Ed è cambiato tutto».

È così, o anche così, che si nutre la fiducia nella Giustizia. Alzando la testa e guardando negli occhi chi si ha di fronte, parlando un linguaggio semplice e non tecnico e incomprensibile, trattando l’imputato come una persona e non come un fascicolo. Comunicando, così, un’idea di giustizia che è qualcosa di più e di meglio di una veloce catena di montaggio che produce sentenze. Di questo c’è bisogno per conquistare e consolidare la fiducia nella giustizia e per far crescere la coscienza del nostro stare insieme.

Questione Giustizia

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