Mafia comunale
“È tutta una mafia” mi dice il barista, mentre mi porge la tazzina del caffè. In realtà sta rispondendo a un altro cliente, col quale commenta il diverso trattamento riservato a chi apre un nuovo esercizio commerciale. In alcuni casi, si semplifica il percorso fino a stendere “red carpet” davanti al negozio e a vantarsene in nome dell’economia che deve crescere e, in altri, si spacca il capello in quattro nell’osservanza di tutte le norme che riguardano sicurezza, sanità, destinazione d’uso degli ambienti e altro ancora.
“È tutta una mafia” riprende il barista con l’intenzione chiara di coinvolgermi nella discussione e per questo chiedo provocatoriamente: “Ma che c’entra la mafia con tutto questo?” e l’interlocutore pronto risponde: “E se non è mafia questa, allora cos’è la mafia?”. Eppure la mafia di cui parlano non uccide e nemmeno minaccia. Ma fa pagare il pizzo, controlla il territorio, distribuisce favori, consolida il consenso. Perché anche la mafia, intesa come criminalità organizzata, non opera per uccidere, ma per fare soldi e rafforzare il proprio potere. E, allora, senza essere sociologi in un’aula di università, né magistrati della III sezione della Corte d’Assise d’appello di Roma e nemmeno criminologi, i miei amici del bar sono arrivati, prima di altri, a comprendere la vera natura delle mafie, peraltro molto più diffuse di quel che pensiamo.
E se c’è mafia nelle amministrazioni locali e nella sanità, nell’informazione e nelle università, figurarsi se non è mafia quel “mondo di mezzo” romano di cui Buzzi e Carminati non sono che i burattinai di secondo livello.
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