Borsellino 26 anni, dal depistaggio all’omertà di Stato
Ancora una volta, sono i familiari delle vittime delle mafie a salvarci dal rischio che l’inevitabile retorica che accompagna le ricorrenze di stragi e omicidi eccellenti finisca per avere la meglio, facendo perdere la strada maestra nell’accertamento della ricerca della verità e della giustizia.
In questo caso ci ha pensato Fiammetta, la figlia di Paolo Borsellino, ad evitare che, in occasione del 26esimo anniversario della strage in cui persero la vita suo padre e i cinque agenti della scorta – Emanuela Loi, Agostino Catalano, Claudio Traina, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli –, passassero sotto silenzio, tra cerimonie e commemorazioni, le importanti verità raggiunte nell’ultimo anno al termine dei procedimenti conclusi a Palermo e Caltanissetta.
Per il processo sulla trattativa Stato – mafia, dopo l’avvenuta lettura del dispositivo il 20 aprile di quest’anno in Corte d’Assise a Palermo, siamo ancora in attesa delle motivazioni, per cogliere fino in fondo il percorso logico e probatorio che ha portato alla condanna di uomini delle istituzioni e boss di Cosa nostra, ritenuti responsabili di un innaturale accordo giocato sulla pelle del nostro Paese.
Invece, per quanto riguarda la sentenza che ha chiuso a Caltanissetta il Borsellino Quater – pronunciata sempre il 20 aprile, ma dello scorso anno –, la recente pubblicazione delle motivazioni della sentenza non solo ha riaperto le vecchie ferite di familiari, ma anche innescato tutta una serie di dubbi, cui le tredici domande di Fiammetta Borsellino, pubblicate da “La Repubblica” alla vigilia del 19 luglio, danno finalmente corpo e, rispondendo alle quali, sarebbe possibile svelare cosa ci sia stato dietra la voluta deviazione delle indagini prima, della successiva contradditoria e contraddetta fase processuale poi.
Tredici domande scomode
Le domande della figlia – che parla anche a nome dei suoi fratelli, Manfredi e Lucia – del magistrato ucciso in via D’Amelio sono rivolte in modo estremamente diretto ai rappresentanti della magistratura e delle forze dell’ordine che, al tempo dei fatti, furono investiti delle responsabilità gestionali e investigative e che oggi sono chiamati in causa per rispondere di un depistaggio iniziato quella domenica di luglio del 1992.
Due dei quesiti riguardano la fase precedente il 19 luglio.
Innanzitutto, perché non furono adottate tutte le misure volte a potenziare la protezione del magistrato palermitano, diventato dopo la strage di Capaci, il bersaglio numero uno di Cosa nostra?
Più volte gli uomini della scorta avevano chiesto di vietare via D’Amelio al posteggio delle auto, autorizzando una zona rimozione, ma non se ne fece mai nulla, neppure dopo l’uccisione di Giovanni Falcone. Prefettura di Palermo e Ministero dell’Interno non finirono mai sotto accusa, pur avendo gravi lacune nel dispositivo di sicurezza da spiegare.
E poi perché il procuratore di Palermo dell’epoca, Pietro Giammanco, non fu mai chiamato a rendere conto, in un’aula di tribunale, delle sue scelte, a dir poco incomprensibili?
Dalla mancata comunicazione del “tritolo arrivato in città” per Borsellino, alla denegata assegnazione del coordinamento delle indagini su Palermo in seno alla Dda del capoluogo, Giammanco non fece mai un passo in avanti e spontaneamente nei confronti di Borsellino. Salvo poi cambiare idea, proprio il 19 luglio del 1992, comunicando la decisione al suo aggiunto con una telefonata di prima mattina, con la quale informava lo stesso Borsellino di affidargli la delega su Palermo, provocandone una reazione stizzita, come fu testimoniata dalla moglie Agnese.
Una volta avvenuta la strage, il luogo del delitto non fu minimamente preservato, lasciando che chiunque potesse non solo passeggiare tra le lamiere e i calcinacci, ma anche trafugare elementi preziosi di prova, come la famosa agenda rossa di Paolo Borsellino. Di questo e del continuo cambiamento delle versioni date in merito al rinvenimento della borsa del collega ucciso dall’ex pm Giuseppe Ayala, all’epoca dei fatti parlamentare della Repubblica, viene chiesto conto e ragione nell’incalzare delle domande.
Quanto avvenne nelle prime ore dopo lo scoppio dell’autobomba in via D’Amelio è avvolto nel mistero, tanto da condizionare in modo pesantissimo il proseguimento delle indagini, perché è ormai assodato che la scena del crimine fu ripetutamente violata, come è testimoniato anche dalla circostanza che il blocco motore della Fiat 126, indicata con sicumera ingiustificata allora fin dai primi lanci ANSA come l’autobomba fatta esplodere in via D’Amelio, sia invece comparso nello scenario della strage soltanto a metà giornata, il 20 luglio, mentre la targa fu rinvenuta addirittura due giorni dopo.
Una serie di domande riguardano invece la procura di Caltanissetta, incaricata delle indagini su Capaci e via D’Amelio, secondo le regole ordinamentali che prevedono che siano i magistrati del distretto vicino ad occuparsi di inchieste che riguardino reati in danno di colleghi o da loro commessi.
All’epoca la procura nissena era però composta da magistrati che, secondo la figlia di Borsellino “non avevano competenze in ambito di mafia”. La donna fa anche nomi e cognomi, abitudine quanto mai rara nel nostro Paese. Il procuratore capo era Giovanni Tinebra e i sostituti Annamaria Palma e Carmelo Petralia, cui si aggiunse nel novembre 1994 Nino Di Matteo, agli inizi della sua carriera in magistratura.
A questi magistrati, Fiammetta Borsellino chiede perché il padre non fu mai convocato come testimone nei cinquantasette giorni che intercorsero tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, nonostante quello che Paolo Borsellino aveva dichiarato, in occasione del dibattito organizzato dalla rivista “Micromega” presso la Biblioteca Comunale di Palermo in data 25 giugno 1992.
«In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita. Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico».
Più chiaro di così il magistrato non poteva essere quella sera, eppure non fu mai convocato formalmente a Caltanissetta, nonostante il falso scoop de “La Repubblica” che, in occasione della deposizione dell’altra figlia di Borsellino, Lucia, nell’ottobre 2015, scrisse che la testimonianza di Paolo Borsellino presso la Procura locale era in programma per il 20 luglio 1992.
Una notizia destituita di fondamento, probabile frutto d’incomprensione, alimentata in qualche modo da quanto contenuto nel racconto al Tribunale di Caltanissetta di un altro magistrato, Francesco Paolo Giordano ben due anni prima: «E quindi c’era un discorso che noi ci dovevamo vedere con Paolo Borsellino, e questo discorso era stato fatto da Tinebra, perché Tinebra direttamente con il suo cellulare aveva parlato con Paolo Borsellino, perché c’era un’amicizia, una colleganza, eravamo, diciamo… ci conoscevamo, chiaramente, nell’associazione magistrati, e a un certo momento forse addirittura si… si arrivò ad una… ad un appuntamento che doveva esserci per questo famoso incontro, perché, quindi, il 15 luglio si insedia Tinebra, questo incontro, quindi, doveva esserci sicuramente nella settimana successiva, cioè a dire la settimana che inizia dal 20 luglio in poi, dice: “Ci incontriamo prima delle ferie sicuramente, dobbiamo parlare”, e tutte ‘ste belle cose. Poi, naturalmente, non è stato possibile».
Ora Fiammetta Borsellino torna a chiedere a quei magistrati perché non fu possibile chiamare il padre a raccontare quello che sapeva o che aveva ricostruito sulle causali della strage di Capaci, pur essendo a disposizione degli inquirenti quasi due mesi per il compimento di un atto istruttorio, che avrebbe dovuto essere prioritario e urgente rispetto a tutti gli altri.
Scarantino, un “pupo da vestire”
La maggior parte delle domande di Fiammetta, ben otto sul totale delle tredici, riguardano inevitabilmente il “pupo da vestire”, vale a dire Vincenzo Scarantino, il picciotto della Guadagna assurto al ruolo di gola profonda della strage e divenuto collaboratore di giustizia fondamentale nei processi precedenti il Borsellino Quater e poi, solo in seguito al confronto finale e fatale con Gaspare Spatuzza, il killer di Brancaccio al servizio dei fratelli Graviano, scioltosi definitivamente come neve al sole.
Nella costruzione e nella tenuta della testimonianza di questa ambigua figura, Fiammetta Borsellino individua precise responsabilità che, alla luce dell’andamento del Borsellino Quater e in attesa delle motivazioni della stessa sentenza, suonano già come una condanna senz’appello per le forze dell’ordine e i magistrati che ebbero a che fare con le rivelazioni ritagliate su misura dello stesso Scarantino.
Sotto accusa finisce innanzitutto il gruppo Falcone – Borsellino, guidato dall’ex capo della mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, all’epoca anche a libro paga dei servizi segreti: perché – si chiede la figlia del giudice – Scarantino non fu affidato al Servizio Centrale di Protezione, ma agli uomini di La Barbera, senza che vi fosse alcun atto ufficiale della magistratura che formalizzasse l’anomala procedura?
Fiammetta Borsellino chiede inoltre anche quali altre informazioni ci possano essere ancora negli archivi del Sisde sia su Scarantino che su La Barbera. Notizie ancora coperte da segreto che potrebbero essere utili ad accertare legami e responsabilità.
Sotto accusa anche i verbali annotati a margine su cui Scarantino ripassò la parte: chi fu il vero responsabile di quei suggerimenti e come è possibile, incalza con un’altra domanda scomoda, che anche la Cassazione abbia ritenuto plausibili le scuse addotte dagli uomini di La Barbera?
Ricordiamo che l’ispettore Fabrizio Mattei – che motivò la consegna dei verbali annotati con l’intento di aiutare Scarantino a “ripassare” – insieme al collega Michele Ribaudo e al dirigente della PS Mario Bo sono stati rinviati a giudizio per concorso in calunnia, come da richiesta della Procura di Caltanissetta. Due anni fa, proprio Bo, insieme ad altri due colleghi, Vincenzo Ricciardi e Salvatore La Barbera, erano stati prosciolti da analoga accusa. Ora torna prepotentemente alla ribalta l’ipotesi che gli uomini di La Barbera – Bo, Mattei e Ribaudo, per l’appunto – siano stati gli istruttori di Enzo Scarantino, a lui affiancati con il compito di accompagnarne ogni fase della testimonianza.
Pronti ad ogni evenienza soprattutto, pronti a soccorrerne anche ogni tentennamento o défaillance, come in occasione della ritrattazione di fronte alle telecamere di Studio Aperto, in data 26 luglio 1995. In quella circostanza, ricorda la figlia di Borsellino, fu predisposto seduta stante un verbale della ritrattazione della ritrattazione, tanto che i pm Petralia e Palma ne diedero notizia alle agenzie, persino prima che l’intervista fosse trasmessa da Italia Uno.
Come e perché fu possibile tutto ciò? Una straordinaria capacità di leggere nel futuro oppure la riprova di un monitoraggio e della costruzione a tavolino della fonte principale, anche in quella fase estremamente delicata, in cui Scarantino sembrò cedere alle pressioni?
Altra vicenda evocata dalle tredici domande è la mancata compilazione del verbale del sopralluogo di polizia effettuato con Scarantino nel garage dove la 126 fu trasformata in autobomba. Un particolare decisivo che è stato tra gli elementi di contraddizione in cui il picciotto è caduto, una volta messo a confronto con Gaspare Spatuzza. Nessun magistrato fu presente al sopralluogo, né mai richiese il verbale. Come e perché fu possibile?
Da ultimo, tre domande centrali, perché attengono a responsabilità precise, per cui la figlia del magistrato ucciso a Palermo, chiama direttamente in causa i colleghi del padre, sperando di ottenere risposte convincenti dopo così tanti anni.
In primis, perché si dovette attendere solo nel 1997 la battaglia legale dei difensori degli imputati, accusati ingiustamente, per far depositare nel primo processo i verbali dei confronti tra Scarantino e tre collaboratori del calibro di Cancemi, La Barbera e Di Matteo, dai quali il “pupo da vestire” ne usciva a pezzi?
E poi, continua Fiammetta Borsellino, perché i “pm di Caltanissetta furono accomodanti con le continue ritrattazioni di Scarantino e non fecero mai il confronto tra i falsi pentiti dell’inchiesta – ndr oltre allo stesso Scarantino, anche Francesco Andriotta e Salvatore Candura –, dai cui interrogatori si evinceva un progressivo aggiustamento delle dichiarazioni, in modo da farle convergere verso l’unica versione?”.
Un attacco che è assolutamente diretto e senza filtri alla gestione dei collaboratori di giustizia da parte della Procura nissena, finita dopo la sentenza del Borsellino Quater nell’occhio del ciclone del fuoco di fila delle domande dei figli di Paolo Borsellino.
Un attacco che non risparmia nessuno, nemmeno Ilda Boccassini, per un periodo applicata alla Procura di Caltanissetta e che firmò con il collega, il pm Roberto Sajeva, “due durissime lettere nelle quali prendeva le distanze dai colleghi che continuavano a credere a Scarantino”.
Perché, chiede Fiammetta Borsellino, la pm Boccassini, allora autorizzò ben dieci colloqui investigativi, nonostante i dubbi e soprattutto nonostante Scarantino avesse iniziato formalmente a collaborare con la giustizia e quindi tale procedura non fosse più possibile?
Le tredici domande scomode di Fiammetta, Manfredi e Lucia Borsellino ci accompagnano in questo 19 luglio 2018 e ci impediscono di guardare a questa ricorrenza con superficialità e retorica.
Al contrario, impegnano tutti noi a comprendere fino in fondo la ragnatela che si distese, fin dalle prime ore dopo l’attentato di via D’Amelio, finendo per concretizzare un depistaggio di Stato, mai visto in precedenza nella storia di un Paese che pure ne ha viste davvero tante.
Un depistaggio che, oggi, rischia di diventare altro, di trasformarsi in segreto basato su una vera e propria omertà di Stato, se non si avrà il coraggio di leggere le carte del Borsellino Quater e, soprattutto, di rispondere alle domande dei figli di Paolo Borsellino.
Borsellino Quater: fu depistaggio. Di Stato
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