Borsellino Quater: fu depistaggio. Di Stato
Sì, su via D’Amelio per anni vi fu un vero e proprio depistaggio.
Le 1856 pagine che contengono le motivazioni della sentenza del Borsellino Quater, redatte dal giudice Janos Barlotti insieme al presidente Antonio Balsamo, rappresentano la chiusura formale di uno dei processi più importanti della nostra storia recente, eppure meno coperti dal punto di vista mediatico.
Non crediamo certo a inverosimili congiure per privare gli italiani di un flusso costante di notizie su quanto avveniva a Caltanissetta, nell’aula della Corte d’Assise. Piuttosto siamo propensi a pensare che i grandi media nazionali – tv e carta stampata, fatte ovviamente le debite e meritorie eccezioni – abbiano creduto che l’ennesimo processo sulla strage di via D’Amelio non avesse più nulla da dire, ma soprattutto non godesse di alcun appeal presso l’opinione pubblica.
Ora la pubblicazione delle motivazioni del processo, arrivata ad oltre quattordici mesi dalla lettura del dispositivo della sentenza, consente di capire meglio quale occasione si sia persa per comprendere il cambio di prospettiva introdotto dalla Corte d’Assise di Caltanisetta e quante responsabilità abbiano i media nell’aver disertato la gran parte delle udienze nissene.
Spatuzza sbugiarda Scarantino
Il Borsellino Quater era stato avviato sulla scorta delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza che ha consentito di ricostruire su basi nuove la fase dell’organizzazione dell’attentato avvenuto in via D’Amelio il 19 luglio del 1992.
Il 20 aprile del 2017 erano così stati comminati dalla Corte d’Assise di Caltanissetta due nuovi ergastoli, il primo per il boss della cosca di San Lorenzo, Salvatore Madonia, inserito nel novero del gotha di Cosa nostra che decise la strage; il secondo a carico di Vittorio Tutino, riconosciuto come uno degli esecutori dell’efferato delitto. Dieci anni di carcere, invece, erano stati inflitti a Calogero Pulci e Francesco Andriotta, per avere, con le loro dichiarazioni, rafforzato il falso contributo di Vincenzo Scarantino e contribuito alla condanna di sette innocenti, ritenuti erroneamente responsabili dell’evento stragista nei precedenti passaggi processuali. Per Scarantino, invece, era scattata la prescrizione, grazie al riconoscimento dell’attenuante di aver commesso il reato, perché indotto da altri.
Leggendo ora le motivazioni depositate, gli “altri”, fino a poco tempo fa del tutto invisibili, prendono invece corpo: sono innanzitutto uomini delle forze dell’ordine, membri della task force “Falcone e Borsellino” della Polizia di stato che, sotto la guida di Arnaldo La Barbera, all’epoca dei fatti ufficialmente a capo della squadra mobile di Palermo, ma contemporaneamente a libro paga dei servizi segreti italiani, erano stati incaricati di scoprire mandanti ed esecutori della strage di via D’Amelio. Operarono, invece, seguendo ben altra direzione, contribuendo a realizzare quello che i giudici non esitano a definire “uno dei più grandi depistaggi della storia giudiziaria italiana”.
Parole che pesano come pietre, quanto queste altre, sempre contenute nelle motivazioni della tanto attesa sentenza: «È lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso».
Non fu la volontà di arrivare ad arrestare i responsabili dell’eccidio senza frapporre tempo o andare troppo per il sottile, né tanto meno fu un errore di valutazione a muovere La Barbera e i suoi nella ricostruzione della fase preparatoria dell’attentato a Borsellino e alla sua scorta, per arrivare successivamente all’individuazione delle responsabilità in capo a mandanti ed esecutori.
Fu piuttosto una deliberata scelta, quella loro, di costruire a tavolino un falso pentito che portasse in poco tempo all’istruzione di un processo a carico di persone, della cui innocenza oggi prendiamo definitivamente coscienza: la scelta cadde su quell’Enzo Scarantino che, picciotto senza gradi e senz’onore del rione della Guadagna, venne subito sbugiardato nell’ambito dei confronti con alcuni boss, come Totò Cancemi, disposti dall’autorità giudiziaria, ma non depositati a disposizione delle parti.
Fu una collaborazione tormentata quella di Scarantino, vissuta tra rivelazioni e correzioni, più volte spintosi fino alla ritrattazione e poi rientrato nei ranghi, soprattutto perché sottoposto a minacce e violenze, fino alla definitiva sconfessione nel confronto finale con Gaspare Spatuzza, il killer e uomo di fiducia dei Graviano, giunto al pentimento per motivi religiosi e in grado di imputare la strage anche ai boss di Brancaccio, fino a quel momento tenuti fuori dallo scenario di via D’Amelio.
Il ruolo di La Barbera
A Scarantino furono pertanto suggeriti particolari credibili – ad esempio, il furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba, realizzato con la rottura del bloccasterzo – che potevano venire solo da persone che erano state informate dei fatti grazie alle rivelazioni di “fonti rimaste occulte”. La Barbera e i suoi passarono queste notizie a Scarantino nel corso di colloqui investigativi che non avrebbero dovuto essere autorizzati, eppure lo furono, visto che lo stesso aveva iniziato a collaborare ufficialmente con la magistratura.
La falsa testimonianza di Scarantino non è l’unica anomalia che riguarda La Barbera, dal momento che i giudici ritengono che sia stato coinvolto “intensamente” anche nella sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino dalla scena del crimine: un occultamento collegato al depistaggio e che innescò nel dirigente della Polizia di Stato una “reazione, connotata da inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre”.
Oltre a quello di La Barbera, sul cui capo sono piombate queste e altre accuse soltanto dopo la sua morte nel 2002, c’è da chiarire anche il ruolo di Bruno Contrada, lui pure in forza al Sisde, anche se ufficialmente al contrario del primo, di cui si è saputo soltanto dopo la scomparsa.
Contrada fu chiamato a collaborare dal procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, nonostante non avesse la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria e su questa tempestività di una scelta definita “decisamente irrituale”, la Corte d’Assise non può non commentare negativamente: «E’ appena il caso di osservare che la rapidità con la quale venne richiesta la irrituale collaborazione del Dott. Contrada, già nel giorno immediatamente successivo alla strage di Via D’Amelio, faceva seguito alla mancata audizione del Dott. Borsellino nel periodo di 57 giorni intercorso tra la strage di Capaci e la sua uccisione, benché lo stesso magistrato avesse manifestato pubblicamente la propria intenzione di fornire il proprio contributo conoscitivo, nelle forme rituali, alle indagini in corso sull’assassinio di Giovanni Falcone, cui egli era legato da una fraterna amicizia».
Anche la magistratura che si è occupata della strage di via D’Amelio esce con le ossa rotte dalla lettura delle motivazioni del Borsellino Quater, in quanto si sarebbe macchiata di una terribile “culpa in vigilando”, quella di non aver vagliato per tempo e con maggior rigore le mendaci dichiarazioni di Scarantino, nonostante l’allarme lanciato ai colleghi per tempo da Ilda Boccassini e Roberto Saieva che avevano segnalato l’inattendibilità proprio del collaboratore, confezionato su misura grazie ai suggerimenti di La Barbera e i suoi.
Dalla trattativa al Borsellino Quater
La sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta riscrive oggi un pezzo di storia, così come è stata accertata a distanza di ventisei anni dalla strage di via d’Amelio e grazie alle indagini che in questi dieci anni di collaborazione autentica con la giustizia di Gaspare Spatuzza sono arrivate a certificare, mettendo nero su bianco, la palese contraffazione di una verità, gettata tra i piedi delle famiglie e dei cittadini, per occultare il reale contesto dell’attentato a Paolo Borsellino.
Ora la Procura di Caltanissetta continua le indagini per stabilire i punti rimasti irrisolti: dal trafugamento dell’agenda rossa di Borsellino all’identità della persona presente al confezionamento dell’autobomba ma estraneo a Cosa nostra, per finire alle responsabilità degli uomini delle forze dell’ordine autori del depistaggio dei depistaggi della storia della nostra Repubblica.
Proprio per tre di loro, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, la procura nissena ha chiesto il rinvio a giudizio per concorso in calunnia: sarebbero stati gli esecutori della strategia concordata con La Barbera per concretizzare la falsa collaborazione di Scarantino. Nel 2016 Bo, insieme a Salvatore La Barbera e a Vincenzo Ricciardi aveva ottenuto l’archiviazione per le stesse accuse. Ora il suo nome torna a finire sotto i riflettori, dopo che il gip ha accolto la richiesta della Procura di Caltanissetta, disponendo il giudizio in data da fissare.
Da una prima e sommaria lettura delle carte finali del Borsellino Quater, si conferma in ogni caso un quadro davvero sconvolgente per lo Stato italiano in quel frangente storico.
Anche da questa vicenda, così come per il processo per la trattativa Stato-mafia, emergono rapporti e relazioni tra esponenti delle istituzioni e uomini di Cosa nostra. Tra il 1992 e il 1993 una serie di interlocuzioni inconfessabili ebbero come oggetto la cessazione delle stragi e la definizione di nuovi rapporti tra mafia e politica, come descritti nel processo arrivato a sentenza il 20 aprile di quest’anno e di cui si attende la pubblicazione delle motivazioni.
Mentre tutto ciò avveniva, chi, come Paolo Borsellino, rappresentava l’ostacolo maggiore, per quello che sapeva sull’operato del collega e amico Giovanni Falcone e intuiva sullo scenario della strage di Capaci, ma soprattutto per la possibilità che aveva di investigare con successo, colpendo mafiosi e servitori infedeli dello Stato, fu spazzato via senza pietà, insieme alla sua scorta.
Al riparo delle ceneri fumanti di via D’Amelio prese avvio un depistaggio che utilizzò strumenti differenti e che non fu opera della mafia, forse strumento parzialmente inconsapevole di altri in quella come in altre circostanze, ma piuttosto di pezzi deviati dello Stato italiano che si preoccuparono di fare sparire prove compromettenti, come l’agenda rossa del magistrato, e di fabbricarne altre false, come il pentito Scarantino, per tacitare la pubblica opinione esasperata e arrivare a produrre “l’occultamento delle responsabilità di altri soggetti per la strage nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa nostra e centri di potere”.
Fu un depistaggio, ma di Stato, ancora più disprezzabile, perché costato la vita di uomini dello Stato, come Paolo Borsellino e i suoi angeli custodi, caduti con lui quella domenica pomeriggio di luglio.
Di stragi, di incontri, di ombre e di silenzi
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