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Ostia e la fenomenologia di una entità

Donatella D'Acapito il . Criminalità

ostia“La parola mafia è una entità… è una parola che andrebbe pesata col bilancino del farmacista”, risponde l’avvocato Mario Giraldi, legale di Carmine Spada, a chi gli chiede se Ostia la mafia ci sia o meno. E poi continua: “Mafia… Queste sono forme di prepotenza, arroganza, di violenza, ma con la mafia non hanno niente a che vedere”.

Ma i magistrati l’hanno pesata questa parola. L’hanno pesata con la bilancia che hanno dietro le spalle e al dibattimento si è arrivati con l’accusa di associazione mafiosa.

Manca poco alle 10 di mercoledì 6 giugno 2018 e, nell’aula bunker di Rebibbia, si apre il processo che vede alla sbarra 27 persone accusate di far parte del clan Spada.

Davanti a Vincenzo Capozza, presidente della III Corte d’Assise del Tribunale di Roma, ci sono gli avvocati difensori, i pm Ilaria Calò e Mario Palazzi e i rappresentanti legali di Roma Capitale, della Regione Lazio, di Libera, dell’Associazione Caponnetto e dell’Ambulatorio Antiusura Onlus che si sono costituiti parte civile. Degli imputati, tre hanno rinunciato a presenziare, mentre gli altri sono collegati in videoconferenza.

Ci sono tutti. Tutti, tranne le quindici parti lese.

La pubblica accusa non ha dubbi: la decisione di non essere in aula da parte di chi ha subito per anni minacce e violenze è una spia di un “clima di intimidazione” che conferma come “le dinamiche di riposizionamento delle organizzazioni criminali nel territorio di Ostia siano tuttora in corso”.

Dinamiche che nascondono problemi di sicurezza per cui è stata confermata la necessità di far partecipare in videoconferenza gli imputati al dibattimento.

Il procedimento arriva dopo oltre due anni di indagini e gli arresti arrivati la notte del 25 gennaio scorso durante l’operazione “Eclisse”. Oltre all’associazione mafiosa, tra i reati contestati a vario titolo, ci sono quello di omicidio, usura, estorsione, traffico di stupefacenti, incendio e danneggiamento aggravato. Figura anche l’accusa di attribuzione fittizia di beni e l’acquisizione, in modo diretto e indiretto, della gestione e controllo di varie attività economiche e di appalti legati agli stabilimenti balneari, oltre che alle sale giochi e ai negozi.

La difesa sembra voler puntare sulla insussistenza del reato associativo, tanto più per la fattispecie mafiosa. Per il reato associativo, però, basta che siano tre persone a stabilire un fine comune.

Il resto, come si è detto in apertura, si presta a essere letto per alcuni con la chiave della criminalità spicciola.

Ma davvero quello che gli Spada hanno messo in piedi a Ostia è così lontano da quanto previsto dall’articolo 416bis del Codice Penale?

Davvero, come recita l’articolo, è pretestuoso credere che i loro atteggiamenti si siano caratterizzati per l’uso “della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”?

Ed è possibile che l’assenza della parte sana di Ostia in aula non sia legata alla paura – comprensibile – di chi a Ostia vive e lavora ogni giorno?

Non è semplice immaginare quale sarà, alla fine, la verità processuale. Intanto la prossima udienza è fissata per il 15 di giugno.

Una cosa, però, andrebbe precisata: per la Cassazione, a Ostia, la mafia c’è. La mafia non è un’entità. E sempre la Cassazione, parlando degli Spada, ha ritenuto valida l’aggravante mafiosa nel confermare a Roberto, nel febbraio scorso, la custodia cautelare in carcere.

Ma se proprio ci si deve appellare al concetto di entità, allora sarebbe più corretto attribuirlo alle assenze. Perché a volte sono queste che, guardate con la lente giusta, parlano di fenomeni che non si ha la volontà o il coraggio di chiamare con il loro nome.


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