Roma, all’ombra del Cupolone
Come nasce un clan, una cosca mafiosa? E soprattutto: come può accadere che nasca tra il Grande Raccordo Anulare e Tivoli lungo la via Tiburtina. C’è un’indagine che ha fissato passo dopo passo i momenti dell’evoluzione di un’organizzazione criminale composta esclusivamente da romani, organizzati proprio come un clan, con la stessa mentalità, e molto aggressivi , anche nei confronti delle forze dell’ordine. Insomma, un gruppo dai connotati mafiosi, dicono le indagini, dedito principalmente alla gestione del monopolio del traffico e dello spaccio di sostanze stupefacenti, nell’area est della Capitale, che gestiva anche le piazze di spaccio di Tivoli e Guidonia, e che era capace di un controllo del territorio simile a quello che si incontra in aree della Campania, della Calabria, della Sicilia.
Gli investigatori scrivono di essersi trovati davanti ad un muro d’omertà inaspettato, frutto della forza di intimidazione dell’organizzazione criminale. Trentanove le persone finite in carcere, agli inizi di marzo, per traffico di sostanze stupefacenti, detenzione di armi ed estorsioni, aggravati dal metodo mafioso. L’indagine era partita con una perquisizione a due giovani spacciatori e il sequestro di 1 kg di cocaina.
I carabinieri della compagnia di Tivoli, al comando del capitano Marco Beraldo, sono riusciti a dimostrare che quei due non erano cani sciolti, ma soldati di una vera e propria organizzazione di tipo piramidale, guidata da persone legate dal vincolo di sangue. I carabinieri hanno sottolineato che l’attività di del gruppo criminale ha fortemente condizionato, le cittadine di Tivoli e Guidonia anche con attività estorsive, stabilendo un vero e proprio controllo del territorio con metodi mafiosi, predisponendo servizi di avvistamento con vedette e pedinamenti, incendiando autovetture, minacciando e mantenendo la disciplina con veri e propri processi sommari per coloro che non si allineavano a voleri del “capo”. I soldati ribelli venivano sottoposti ad un contraddittorio, poi, in caso di “condanna”, venivano puniti con pestaggi o sfregi al volto.
Il capo dell’organizzazione, il pluripregiudicato Giacomo Cascalisci, parlava ai suoi uomini di presunti “ideali e valori” dell’organizzazione, naturalmente criminali. Cascalisci contava su due luogotenenti che dirigevano le piazze di spaccio, le vedette e i pusher, ragazzi con specifici incarichi. Dalle intercettazioni è emerso che erano state discusse anche azioni di ritorsione nei confronti dei Carabinieri che, a dire degli indagati, mettevano sotto pressione il gruppo. I militari venivano pedinati, per individuarne le abitazioni, minacciarne le famiglie ed incendiarne le autovetture. L’organizzazione garantiva agli arrestati anche l’assistenza legale. Negli atti dell’indagine viene tirato in ballo l’avvocato Francesco Tagliaferri ,ex presidente dell’Unione Camere Penali di Roma, cui si rivolgevano sia gli uomini di Cascalisci che lo stesso capo del gruppo. Cascalisci però, secondo gli inquirenti, all’avvocato chiedeva informazioni. L’organizzazione di Cascalisci mirava anche ad avvicinare politici, dicono i carabinieri, disegno fermato dagli arresti, che hanno bloccato anche l’intenzione del clan di crescere e fare investimenti, riciclare il denaro, incassi per oltre 20mila euro al giorno, garantiti dalla droga, acquistata nel quartiere romano di San Basilio, da fornitori calabresi.
Ma a San Basilio, come in tutta Roma, c’è davvero posto per tutti i clan. Lo dimostra anche l’inchiesta che a metà marzo ha portato all’ arresto di 19 persone, in esecuzione di un’ ordinanza di custodia cautelare richiesta della direzione distrettuale antimafia di Roma: accuse per spaccio di droga e traffico di cocaina, aggravato dall’uso delle armi. I carabinieri hanno potuto documentare l’attività di due organizzazioni criminali, legate da solidi accordi, una guidata dai fratelli Salvatore e Jenny Esposito esponenti di una importante famiglia criminale, i Licciardi, di Secondigliano a Napoli e l’altra da Vincenzo Polito. Gli Esposito figli di Luigi Esposito, detto “Gigino Nacchella” – storico esponente del clan Licciardi- si erano stabiliti a Nettuno e successivamente si erano trasferiti nella Capitale, in via Maiolati, nel quartiere di San Basilio. Li avevano assunto il controllo di una grossa piazza di spaccio , organizzata con i capo piazza,i pusher, le vedette, secondo il modello classico della camorra. E guai a sgarrare. Gli Esposito hanno sempre fatto pesare la loro capacità di ricorrere alle maniere forti e all’uso delle armi. Tre pusher che si erano riforniti da trafficanti esterni all’associazione erano stati puniti con la gambizzazione. Uno dei capo piazza si è perfino tatuato su un braccio i diminutivi dei nomi dei suoi capi, ossia “Sasà” e “Genny”. Contemporaneamente gli Esposito continuavano ad occuparsi della fornitura di narcotici nella zona di Nettuno. L’altra organizzazione guidata da Vincenzo Polito era impegnata nell’ approvvigionamento e nella distribuzione di ingenti quantitativi di cocaina a Roma e provincia . Stupefacenti forniti da esponenti delle cosche della ‘ndrangheta della provincia di Reggio Calabria. Famiglie potenti come quella dei Gallico, dei Filippone, da anni presenti nella capitale.
Quando parli di traffico di droga o di riciclaggio di denaro sporco, sempre in grande, a Roma il nome dei Filippone torna spesso. E quando si parla di investimenti il nome che torna è quello di Francesco Filippone, figlio di Rocco Santo, capo dell’omonima cosca di ‘ndrangheta legata ai Piromalli . Un anno fa Rocco Santo Filippone fu raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare per l’inchiesta della Procura di Reggio Calabria sulla ndrangheta stragista. Gli venivano contestati attentati, omicidi e tentati omicidi compiuti in Calabria ai danni di carabinieri, nell’ambito della strategia di attacco allo Stato varata da Cosa Nostra e concordata con la ndrangheta tra il 92 e 93. E infatti, nell’inchiesta “ndrangheta stragista”, con il nome di Rocco Santo Filippone compariva quello del boss palermitano Giuseppe Graviano, già tirato in ballo e condannato per gli attentati compiuti da Cosa Nostra in quel periodo. Ma torniamo al figlio di Rocco Santo Filippone, Francesco. Il rampollo del boss calabrese all’inizio degli anni 90 si era stabilito a Roma dove man mano la sua cosca ha assunto un ruolo di primo piano nella distribuzione di grandi partite di droga . San Basilio è solo una delle aree rifornite dai Filippone . Contemporaneamente Francesco Filippone ha cominciato a riciclare danaro con investimenti nella capitale. Frenetiche le attività finanziarie che gli investigatori attribuiscono a Francesco Filippone. Tra l’altro quelle scoperti nell’indagine patrimoniale denominata “All’ombra del cupolone“, una inchiesta della Divisione Anticrimine della Questura di Roma dal nome evocativo, collegata ad una serie di altre attività investigative della Polizia di Stato sulla criminalità organizzata a Roma. Sono stati scoperti così investimenti delle famiglie Calvi, Mercuri e appunto Filippone, entrate in contatto con personaggi della criminalità romana, appartenenti alla famiglia dei Casamonica, e con esponenti della camorra, soprattutto casalese.
L’ultimo atto dell’indagine patrimoniale denominata “All’ombra del cupolone” è di fine marzo: il sequestro di una concessionaria di autovetture nella zona Laurentina,la Sarocar, 3.000 metri quadrati, del valore di circa 3 milioni di euro che vanno a sommarsi agli oltre 30 milioni di euro, beni mobili, immobili, 48 complessi aziendali e quote societarie sequestrati a maggio del 2016 e poi nel marzo dello scorso anno a Roma, ma anche nel Nord in Toscana e in Campania.Tra i beni sequestrati, diversi esercizi commerciali nel settore bar e ristorazione, in alcune delle zone più prestigiose della cità tra il Vaticano, Borgo Pio e Prati. I principali erano Pio er Caffè, Hostaria Sora Franca e Caffè Angolo d’Oro, una rivendita di autoveicoli denominata My Cars il ristorante-pizzeria denominato “MiRò Restaurant Kitchen & Sound”, nei pressi di Castel S.Angelo . Strana st e al tempo stesso significativa storia quella del Mirò: nel 2009, si chiamava “Platinum”, era stato già sequestrato dalla Dia, perché considerato riconducibile ad un’altra famiglia di ndrangheta: i Gallico di Palmi, una delle tante ndrine radicate a Roma, città attraversata tumultuosamente da un altro fiume oltre al Tevere e all’Aniene, quello dei soldi sporchi e della cocaina.
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