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Pizzolungo, la strage 24 anni dopo: Carlo Palermo è ora cittadino onorario di Erice

Di Rino Giacalone il . Sicilia

Da ieri è cittadino onorario
di Erice l’ex giudice Carlo Palermo, vittima predestinata di quel tritolo
mafioso collocato il 2 aprile 1985 in una curva di Pizzolungo. Una occasione
quella odierna, non ha nascosto l’ex magistrato, per pensare di fare
qualcosa di nuovo, «per colmare quel vuoto che è rimasto». «Il tempo
– ricorda parlando di quel 1985 e di quei 40 giorni da pm a Trapani,
dove vi era giunto dovendo andare via dalla Procura di Trento per quelle
indagini che avevano toccato ambienti dove si nascondevano mafie e collusioni
tra trafficanti di armi e droga, politici e banchieri – fu talmente
breve che non consentì un interscambio tra me e la gente. Da parte
dei cittadini non vi fu il tempo materiale di conoscermi, da parte mia,
per ciò che avvenne, vi fu una barriera insormontabile a stabilire
rapporti, la brevità del periodo costituì l’impedimento determinante».

Nato ad Avellino, poi Trento,
Trapani e di nuovo Trento, prima da magistrato ora da avvocato, adesso
cittadino di Erice, una cosa che la fa sentire frastornato?

«Direi molto frastornato ma
sono però contento e felice, in quanto questi stimoli ancora mi fanno
sentire ancora utile per qualche cosa per dare un significato anche
all’oggi, la realtà attuale è difficile per tutti».

Nel 1985 si diceva che la
mafia non esisteva, oggi che è sconfitta. In fin dei conti il concetto
è identico. Lei che ne pensa?

«Esistono vari livelli e varie
modalità di qualificare il fenomeno mafioso. Di certo il modello mafioso,
quello che sinteticamente si individua nelle connotazioni di omertà,
di condizionamento del potere, non è più solo patrimonio della Sicilia,
nell’ultimo decennio si è visto come centri di potere scoperti anche
a Milano si fondavano su modelli caratterizzati da queste connotazioni
che ci dicono come esista un potere colluso globalmente. È passato
del tempo e quindi è difficile pensare che quelle mentalità possano
essere scomparse per gli interventi della magistratura, anzi oggi è
più difficile individuarle, ci sono difficoltà a mettere insieme i
fili di queste connessioni che travalicano i limiti territoriali, anzi
molto spesso queste attività sono svolte e dirette dal di fuori e quindi
è più difficile intervenire; se poi si aggiungono le difficoltà per
la magistratura di intervenire attivamente per le trasformazioni che
sono avvenute a cominciare dalle modifiche processuali, ci si rende
conto che da una parte i poteri crinminali hanno libero accesso a modalità
di intervento evolutissime e la magistratura è in possesso di metodologie
e regole condizionate e antiquate, non adeguate ad affrontare questi
contropoteri».

Continua a chiedersi il
perchè di quell’attentato?

«Sento ancora il desiderio
di riuscire, per quanto mi sarà possibile, a rileggere le pagine della
storia di Trapani, che sono state anche le pagine della mia vita. Con
il passar del tempo si riesce a vedere e parlare di certi argomenti
con maggiore oggettività».

Guardando poi la stele: «Se
nel 1985 non fossi venuto a Trapani, loro ci sarebbero ancora; per me,
giungere alla verità sulla strage è anche un modo per saldare un debito».
«La speranza – dice l’avv. Palermo – è che queste domande trovino
delle risposte. Voglio pensare che non è un caso che abbia avuto la
fortuna di sopravvivere, conseguentemente c’è la utilizzazione di questo
tempo per continuare a cercare. Mi è stata data questa fortuna e intendo
sfruttarla sino a quando ne avrò la possibilità».

Sullo sfondo dell’attentato
restano le ombre dei cosiddetti «poteri occulti», assieme ai legami
tra le mafie, italiane e turche, i traffici di armi e droga, la gestione
delle «casseforti» del riciclaggio, dei denari di Cosa Nostra e di
una serie di investimenti illeciti. Le sentenze di condanna sono vaghe
sulle motivazioni ma ugualmente i giudici sono riusciti ad infliggere
l’ergastolo a Totò Riina, al capo mafia di Trapani Vincenzo Virga,
ai loro gregari Balduccio Di Maggio e Nino Madonia, una condanna per
ricettazione per il castellamarese Gino Calabrò, dalla sua officina
passò una delle auto usate per la strage, lui poi si è dimostrato
esperto di esplosivi e di strategie terroristiche, è a scontare l’ergastolo
anche per gli attentati del 1993.Ma clamorosamente fuori dal 41 bis.

A Trapani non era più tornato
perché, racconta, credeva che nulla potesse cancellare lo «sgomento»
che continuamente dice di avere avuto sempre negli occhi. E invece?

«Ho scoperto che esiste una
voglia di riscatto, i miei occhi possono vedere altro». È tornato
a Trapani l’anno scorso per la prima volta dopo 23 anni, quest’anno
è ritornato Carlo Palermo, avvocato, ex magistrato a Trento e a Trapani.
«È stata una grossa emozione e una grossa sorpresa in quanto non ritenevo
vi fosse ancora una sensibilità così grossa da parte dei trapanesi.
Quando io arrivai a Trapani ero uno sconosciuto e così trattato. Oggi
non trovo più diffidenza e non sono più un estraneo».Tornando a Trapani
ha anche chiesto notizie su una serie di indagini. I mafiosi, molti,
sono in cella, altri non sono rimasti sconosciuti: «Mi rendo conto
– svela Carlo Palermo – che quel periodo storico di Trapani degli anni
’80 non è rimasto accantonato, dimenticato e trascurato. Nell’85 scelsi
di venire a Trapani per proseguire un’attività avviata 5 anni prima
a Trento. L’attentato ritengo sia da inquadrare in un progetto preventivo.
Nonostante la chiedessi in continuazione, non vi era alcuna vigilanza
sulla mia abitazione (una villetta al Villaggio Solare, in territorio
di Valderice ndr), nè fu mai eseguita un’attività di bonifica lungo
il percorso che facevo ogni mattina, una assenza di un controllo preventivo
che penso abbia concorso nell’attentato».

Ventiquattro anni dopo riaffiorano
nella memoria di Carlo Palermo «l’isolamento, sia da parte delle istituzioni
che della popolazione che mi pesò veramente molto. Oggi la situazione
è cambiata». Parlando delle indagini sulla strage Carlo Palermo, ha
rimarcato la «contraddizione» legata al fatto che il processo a carico
dei presunti esecutori materiali, «svoltosi a poca distanza dai fatti,
sfociò nelle assoluzioni» e che «la condanna dei presunti mandanti
avvenne molti anni dopo e solo per le dichiarazioni rese da collaboratori
di giustizia, questi ultimi neppure ascoltati organicamente».

Ed oggi, qual’è la sua
visione?

«Pensare – conclude – che
la mafia si sconfigga con l’arresto di qualche referente locale di Cosa
nostra significa avere una visione parziale del fenomeno. Ancor’oggi
combattiamo contro le ombre del passato: chi ha fornito l’esplosivo
per gli attentati a Chinnici, Falcone e Borsellino? Chi ha fornito e
l’esplosivo utilizzato a Pizzolungo?».

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