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Il “ruolo sociale” del giurista impone una comunicazione più inclusiva

Donatella Stasio il . Giustizia

1592_largePubblichiamo il testo dell’intervento svolto dall’autrice al seminario tenuto con il professor Massimo Donini il 15 marzo 2018, nell’ambito delle attività formative del Dottorato in Scienze giuridiche dell’Università di Firenze.

Sono una giornalista ma mi sono sempre definita una “giornalista per caso”. Non sono nata con la vocazione del giornalismo – al contrario di tanti miei bravissimi colleghi –. Anche se da bambina scrivevo sul Corrierino dei piccoli, da “grande” volevo fare altro: l’avvocato, possibilmente penalista. E così è andata per qualche anno, seppure come civilista. Poi ho incrociato altre strade, tra cui quella del giornalismo, e ho deciso di esplorarla partendo da zero.

La mia formazione, quindi, è quella di una persona che ha studiato sui libri di diritto, che il diritto lo ha praticato e che ne ha scritto su qualche rivista giuridica, oltre ad averlo respirato in casa, fin da bambina, avendo avuto due genitori avvocati, allievi di Francesco Carnelutti, e un padre particolarmente appassionato del diritto, seppure non tanto quanto della storia e filosofia.

Perché questa premessa autobiografica.

Per spiegare, anzitutto, che quando ho cominciato a “fare comunicazione”, questa era la storia che avevo alle spalle. Parlavo e ragionavo certamente più da “giurista” che da giornalista.

Mi ero abituata a spaccare il capello in quattro, avevo imparato a considerare la complessità dei fatti e delle soluzioni giuridiche, avevo faticato – come molti, credo  ad acquisire un linguaggio tecnico, che in alcuni casi sembrava una strada obbligata senza alcuna alternativa. Un gergo difficile ma rassicurante. Un linguaggio esoterico – diciamolo  ma che rende “riconoscibili”.

Quando cominciai a scrivere i miei primi articoli, però, cambiò la prospettiva.

In realtà cambiò tutto: anzitutto fui costretta ad imparare a scrivere a macchina, perché fino a quel momento avevo usato soltanto la penna.

Poi fui costretta ad abituarmi alla sintesi, cercando di conciliare la complessità del racconto e del ragionamento giuridico con un numero di righe sempre troppo ridotto e con titoli in cui contavano più le battute che l’esattezza del concetto da esprimere.

Ma fui costretta, soprattutto, a ripensare totalmente la mia scrittura, l’impostazione dei miei pezzi, che all’inizio sembravano più atti di citazione che resoconti giornalistici…

Lavoravo al Sole 24 Ore, giornale certamente congeniale alla mia formazione e mi occupavo di diritto, in particolare di giurisprudenza: ogni giorno dovevo leggere le sentenze depositate della Cassazione e della Corte costituzionale e scovare le novità. I miei pezzi erano molto apprezzati dal pubblico dei giuristi per la precisione tecnica ma troppo spesso risultavano difficili, per non dire oscuri, a tutti gli altri. Cioè alla gente comune, che però aveva il medesimo diritto di essere informata per farsi un’opinione e partecipare con cognizione di causa al dibattito pubblico.

Quindi, ben presto cambiai registro.

Non fu facile.

Non fu facile, in particolare, liberarmi di quel linguaggio tecnico ed esoterico, ma rassicurante e rapido. “Tradurlo” in parole semplici richiedeva molto più tempo, esponeva al pericolo di tradirne il senso (per la verità non sempre di adamantina chiarezza), e rischiava di sfociare in un’eccessiva semplificazione, se non, addirittura, nella manipolazione.

Inoltre, il tecnicismo è spesso un comodo escamotage per eludere la politicità del diritto e apparire all’esterno imparziali, neutrali.

Ma non c’erano alternative al cambiamento. Soprattutto se si crede – come io credo – alla “funzione sociale” dell’informazione: in tal caso, imparare a comunicare nel modo più “inclusivo” possibile è un imperativo categorico.

Certo, fare informazione – buona informazione, ovviamente  in un settore come la giustizia è complicato perché complessa è la realtà da raccontare, spiegare, sintetizzare, spesso in poco tempo e in poco spazio e ad un pubblico vasto ed eterogeneo.

È una sfida e al tempo stesso una responsabilità, perché la posta in gioco è – come dicevo prima – contribuire a formare un’opinione pubblica informata, e quindi in grado di esercitare nel modo migliore il proprio diritto di critica.

Non è cosa da poco. Si tratta, in buona sostanza, di contribuire a migliorare la qualità del dibattito pubblico e, quindi, la qualità della democrazia.

Ecco – sia pure con le dovute distinzioni – io credo che “il popolo dei giuristi” non possa sentirsi estraneo a questo compito e a questa responsabilità. Che non sono esclusivi di una categoria professionale  i giornalisti  tanto più nella società multimediale in cui viviamo, nella quale notizie, informazioni, analisi viaggiano velocemente su molteplici piattaforme, ciascuna con il proprio linguaggio, raggiungendo un numero impensabile di persone, orientando così opinioni, condotte, decisioni.

Questa realtà, se da un lato amplia le potenzialità della libertà di informazione, dall’altro lato ha in sé un potenziale distorsivo e distruttivo dei fatti, della loro complessità e quindi della relativa conoscenza/comprensione. Anche perché oggi la comunicazione vive sempre di più dell’istante e rinuncia alla riflessione e all’argomentazione. Tutti aspetti, peraltro, che erano stati messi in luce già negli anni Sessanta da Hanna Arendt, in un famoso saggio intitolato Verità e politica. Da rileggere anche per smentire chi pensa davvero che le fake news siano nate oggi…

In questo contesto che ho appeno descritto, il giurista non può chiamarsi fuori dalla responsabilità di comunicare. Non può farlo proprio in ragione di quel “ruolo sociale” di cui parla il titolo di questo incontro, e che io condivido pienamente.

Non so, però, quanta consapevolezza ci sia, tra i giuristi, di questo ruolo e del relativo dovere di comunicare “oltre” la ristretta cerchia dei giuristi.

Il dovere di comunicare impone infatti una serie di cambiamenti, dal linguaggio agli interlocutori.

E impone anche di prendere posizione.

A questo proposito, ricordo un bel convegno organizzato dall’Associazione Franco Bricola nel 2014, a Bologna. In quell’occasione, Marcello Gallo – che fra l’altro fu il mio professore di diritto penale all’università e che anni dopo incontrai in Parlamento: io giornalista parlamentare e lui senatore, nonché presidente della Commissione bicamerale per le modifiche al nuovo Codice di procedura penale – richiamò i suoi colleghi – cito testualmente – «a uscire dall’adorata asetticità del mestiere di giuristi per affrontare quello che la mia generazione – disse – affrontò nel ’43: la scelta di un futuro non solo per noi ma per tutto il Paese». Gallo mise il dito sulla piaga del «carattere esoterico» del linguaggio dei giuristi, perciò destinato a non avere alcuna incidenza sul mondo politico. E aggiunse: «La necessità ci si presenta, ci pone le sue mani adunche attorno al collo e ci costringe a prendere posizione» [1].

In quello stesso convegno – cui ero stata invitata come giornalista a una tavola rotonda sui «Nuovi protagonisti della politica criminale» – anch’io posi l’accento sul prendere posizione”, come momento imprescindibile del processo informativo.

Avevo preso spunto da un bellissimo libretto scritto da Gustavo Zagrebelsky, edito da Einaudi e intitolato Fondata sulla cultura. «La conoscenza delle cose apre alla loro interpretazione – spiega Zagrebelsky in quelle pagine – ma l’interpretazione dà un senso alle cose stesse, le fa conoscere come manifestazioni di senso. Per questo interpretare è sempre prendere posizione». «L’interprete – continua – ha occhi per ciò che è, per ciò che è stato, per ciò che sarà, e in questa sequenza sta il suo necessario prendere posizione».

Interprete dei fatti è senz’altro il giornalista. Ma lo è anche il giurista, in quanto “uomo sociale”, come peraltro lo definiva Piero Calamandrei.

Viviamo in un’epoca in cui, a fronte dell’enorme massa di informazioni in circolazione, scarseggiano ragionamento, riflessione, pensiero. Scarseggia la cultura, oserei dire. Sicuramente scarseggia l’elaborazione del pensiero.

C’è più che mai bisogno di mettere in circolo pensieri che – al di là della condivisione soggettiva – costringano anzitutto a misurarsi con la complessità della realtà, che si sottraggano alla dittatura del populismo, che si smarchino da quel diffuso sentire comune estraneo ai valori costituzionali che ormai, purtroppo, detta l’agenda politica e quindi il futuro del nostro Paese.

C’è bisogno, insomma, di ricucire uno strappo tra il Paese reale, le istituzioni, il patrimonio costituzionale. C’è bisogno di un’integrazione, proprio quella che pretendiamo da chi entra in Italia ma che noi per primi non dimostriamo di aver realizzato come comunità.

Ebbene, per ricucire questo strappo, bisogna comunicare. E la comunicazione non può che essere inclusiva.

Anche il giurista deve farsene carico.

Dopo aver fatto per 33 anni informazione in un giornale, oggi mi trovo “dall’altra parte della barricata”, poiché collaboro con la Corte costituzionale, occupandomi della sua comunicazione. Prima raccontavo la Corte dall’esterno, adesso dall’interno. Ho accettato questa sfida anche, e forse soprattutto, per misurarmi con quanto ho scritto e detto negli ultimi anni in varie sedi, anche istituzionali, sul “dovere di comunicare della Giustizia” (intesa come istituzione, funzione, potere, servizio), non solo per un’esigenza di trasparenza, ma anche per rendere più comprensibile i propri comportamenti e soprattutto per cercare di ridurre la distanza con il cittadino, così da non farlo sentire uno straniero  come il protagonista dell’omonimo romanzo di Camus  ma parte di una comunità.

Questo dovere di comunicare dei giuristi prescinde dalla mediazione giornalistica. Sulla quale si scaricano – a torto o a ragione – incomprensioni, distorsioni, manipolazioni, con ricadute micidiali sulla qualità della democrazia. Ma che – diciamo la verità – spesso è anche un comodo alibi per cristallizzare pigrizie, opacità, ambiguità, e, in fondo, per non prendere posizione e per non rendere conto.

Bene. I primi mesi di questa nuova esperienza professionale mi hanno confermato che c’è lo spazio per una diversa cultura della comunicazione istituzionale, intesa cioè come necessità di inclusione e non certo come propaganda. C’è consapevolezza e volontà di comunicare sia per rendere conto sia per riconciliarsi con il Paese reale sia per riconciliare quest’ultimo con i propri valori.

Ne ha parlato – in maniera esemplare – anche Paolo Grossi, nella relazione che ha letto come presidente della Corte costituzionale lo scorso 22 febbraio in occasione della riunione straordinaria della Corte (vigilia della sua uscita dalla Consulta per scadenza del mandato novennale di giudice costituzionale). Grossi ha sottolineato la dimensione “corale” della Corte, che attraverso le sue molteplici e diverse professionalità «è chiamata– ha detto – non solo ad assicurare il miglior funzionamento di una macchina che “produce” decisioni, ma a contribuire al lento processo di costruzione di una “mentalità costituzionale”, di una sensibilità, cioè, e persino di uno stile, orientati nel complesso, dentro e fuori le istituzioni, verso la convivenza più compatibile».

La relazione di Grossi testimonia che la comunicazione fa parte del Dna della Corte, la cui funzione, come ha detto il presidente emerito, è «quella di interpretare il proprio ruolo di garante anche alimentando direttamente, con l’esempio e la testimonianza del dialogo, e con la divulgazione, la cultura della Costituzione, vale a dire la coscienza del nostro “stare insieme” (cum stare)».

Da questa premessa derivano una serie di conseguenze e di iniziative, tra le quali il «Viaggio in Italia della Corte»: i giudici costituzionali vanno in giro per le scuole secondarie a parlare con gli studenti, a interloquire con loro, usando un linguaggio inclusivo, non esoterico, proprio per cercare di ridurre lo scarto tra Paese reale e patrimonio costituzionale, in funzione di un’effettiva condivisione di quel patrimonio. E per sviluppare un genuino senso di appartenenza alla comunità.

In questo modo  come scrive Grossi  «la Corte, con tutte le donne e tutti gli uomini del suo apparato, è “protagonista” di un itinerario etico e giuridico che viene da molto lontano e che riguarda la nostra storia comune e quella che stiamo costruendo».

Ecco, questa “prospettiva autenticamente comunicativa” è, a mio giudizio, la “cifra” di una Corte costituzionale moderna, sempre più aperta all’esterno e non barricata altezzosamente nel suo palazzo settecentesco.

Ed è un esempio emblematico di come il giurista possa e debba interpretare il suo “ruolo sociale” anche in chiave di comunicazione.

In conclusione: ho detto prima di essere passata a fare informazione “dall’altro lato della barricata”. In realtà si tratta di un’espressione sbagliata. Ferma restando la diversità di ruoli e di competenze, penso che siamo tutti dietro la medesima barricata, perché tutti abbiamo anzitutto il compito di difendere, promuovere, consolidare quella “mentalità costituzionale” di cui parlava Grossi, che è alla base della migliore qualità della nostra democrazia.

Un compito che  in questa sempre più lunga e difficile transizione politico-istituzionale, fonte di smarrimento dei cittadini – è quasi un dovere per ciascuno di noi.

Come diceva Calamandrei: «Per far vivere una democrazia non basta la ragione codificata nelle norme di una Costituzione democratica, ma occorre dietro di esse la vigile e operosa presenza del costume democratico, che voglia e sappia tradurla, giorno per giorno, in concreta, ragionata e ragionevole realtà».

[1] Si veda in Rubrica «Controcanto» del 27 maggio 2017: La «necessità» di prendere posizione contro il populismo penale, http://www.questionegiustizia.it/articolo/la-necessita-di-prendere-posizione-contro-il-populismo-penale_27-05-2017.php

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