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Diplomazia e Denaro dei nuovi boss

Lirio Abbate il . Dai territori, Sicilia

di Lirio Abbate
Troppe volte, anzi spesso, si è delegato solo alla magistratura il compito di “gestire”, perché ne ha il potere, la legalità. Ma non solo quello, si è delegato ai giudici il compito di indicare se una persona è “pulita” oppure se è onesta. Ma quando vivi in Sicilia non occorre attendere una sentenza per sapere chi è colluso o mafioso, perché è la vita di ogni giorno che te lo indica. Ma ciò non basta per la giustizia. Potrebbe bastare per selezionare le classi dirigenti o quelle politiche. Nelle aule di tribunale ci vogliono le prove per condannare. Si parla di legalitarismo in caso di persone o gruppi che fanno della legalità il proprio principio-guida.

E così si è andati avanti prendendo spunto dalle sentenze o dai provvedimenti di archiviazione per indicare se si è puliti moralmente. Ma ciò non basta. Spesso accade che quello che è socialmente rilevante per l’informazione e per la società, non è penalmente rilevante per i giudici. Da qui le assoluzioni. Squallidi episodi o fatti documentalmente provabili che riguardano amministratori pubblici o politici da far venire il mal di pancia, spesso non rientrano fra le “notizie di reato”. Per processare una persona ci vogliono prove, se si tratta di un politico ci vogliono una montagna di prove.

Questo concetto lo spiegava benissimo nel 1999 il procuratore Paolo Borsellino: «Vi è stata una delega totale e inammissibile nei confronti della magistratura e delle forze dell’ordine a occuparsi esse solo del problema della mafia […]. E c’è un equivoco di fondo: si dice che quel politico era vicino alla mafia, che quel politico era stato accusato di avere interessi convergenti con la mafia, però la magistratura, non potendone accertare le prove, non l’ha condannato, ergo quell’uomo è onesto… e no! […] Questo discorso non va, perché la magistratura può fare solo un accertamento giudiziale. Può dire, be’ ci sono sospetti, sospetti anche gravi, ma io non ho le prove e la certezza giuridica per dire che quest’uomo è un mafioso. Però i consigli comunali, regionali e provinciali avrebbero dovuto trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze sospette tra politici e mafiosi, considerando il politico tal dei tali inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Ci si è nascosti dietro lo schema della sentenza, cioè quest’uomo non è mai stato condannato, quindi non è un mafioso, quindi è un uomo onesto!».

Ma la politica, oggi più di prima, rivendica il suo primato. I partiti, in emorragia costante d’iscritti, non tollerano “intrusioni” da parte dei giudici o dei media. Ma i politici moralmente scorretti, perché magari vanno a pranzo o a cena con i mafiosi, o si incontrano nei retrobottega dei negozi per concordare affari finanziati con soldi pubblici, o in salette riservate di un hotel in cui si abbracciano e si baciano per poi discutere di commesse da affidare a imprese amiche o a posti di lavoro da assegnare ai “picciotti”, non si creano problemi: le segreterie dei partiti continuano a candidarli, anche se indagati, e la gente a votarli. Nessuno guarda il lato etico della vicenda, ma solo quello del profitto che arriva da ambienti illegali.

L’11 aprile 2006 è stato arrestato nelle campagne di Corleone Bernardo Provenzano. Sono convinto che questa lunghissima latitanza sia stata resa possibile dalla vasta, intricata, resistente ma invisibile rete di protezione che si era creata attorno a lui. Una rete composta in buona parte da persone insospettabili, politici, imprenditori, professionisti. E siccome durante questi 43 anni tanti di coloro che aiutarono all’inizio la latitanza del padrino corleonese devono essere morti di vecchiaia, ne consegue che la protezione del boss è stata lasciata in eredità a figli, nipoti, parenti, amici, soci. Voglio dire che due generazioni di insospettabili sono stati Complici diretti o indiretti di Provenzano. È questa la vastità del male, anzi, di una parte del male. E non credo d’azzardare troppo dicendo che oltre a essere insospettabili alcuni dei protettori forse erano (e sono) anche difficilmente “toccabili”. E fino a che questa gente resterà a piede libero corriamo il rischio di tornare a sporcarci.

E poi vorrei che tutti ci ricordassimo che la mafia, da tempo, non è solo (o forse non è più) Provenzano. Perché contrariamente al detto comune «morto un papa se ne fa un altro», nella mafia, appena il papa s’ammala, se ne fa subito un altro.

Già, i complici. Cosa Nostra senza la politica, senza le coperture istituzionali, senza il controllo ferreo del voto e delle gare di appalto, è solo un’arcaica banda di assassini ed estorsori destinata a essere cancellata dal tempo e dalla storia. Ma la mafia è mafia perché ha i contatti con la politica.

Qui sta la grande vittoria di Provenzano: essere riuscito, con la complicità di tutti, politici, media, istituzioni, a farlo dimenticare.

In molti vogliono dimenticare. Perché intanto non vogliono ricordare i mali provocati dalla mafia, un’organizzazione segreta che è stata capace di far la guerra allo Stato e uccidere magistrati, uomini delle forze dell’ordine, politici, sindacalisti e giornalisti. Ancora oggi è viva e vegeta. E nel silenzio è diventata forte più di prima. E se al ricordo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, due eroi italiani, assassinati quindici anni fa assieme alle donne e agli uomini che stavano loro accanto, molti credono ancora nell’antimafia, qualcuno delle istituzioni vorrebbe invece cancellarli. Perché non aiutano lo sviluppo turistico della Sicilia (sic!). Un politico s i è scusato della “frase infelice”, l’ha “ritirata” solo dopo tre giorni dal momento in cui l’ha pronunciata. Ma una frase, però, non si può ritirare e rimettere in tasca come fosse un pizzino: quando è detta è detta. In pubblico, davanti a molte persone: è detta. Che il presidente del parlamento siciliano, Gianfranco Miccichè trovi negativo “per l’immagine della Sicilia” vedere scritto il nome di Falcone e Borsellino all’aeroporto ogni volta che atterra a Palermo non è condivisibile, soprattutto se arriva da una carica politica così alta per i siciliani. E’ dunque il ricordo che fa male. Cancellare i nomi di chi nella guerra alla mafia ci è morto può portare a dire: niente nomi niente guerra. Niente targhe niente mafia. La memoria è labile, alimentiamola piuttosto di sagre folkloristiche, di fiere per moto e barche e con i festini.

Oggi le analisi della Confcommercio dicono che il fatturato delle mafie in Italia è di 90 miliardi di euro, circa il 6% del prodotto interno lordo. Uno degli elementi che emerge con maggiore evidenza, dal Rapporto 2007 di SoS Impresa, è l’estendersi di quell’area, che potremmo chiamare della collusione partecipata e che investe il Ghota della grande impresa italiana, impegnata nei grandi lavori pubblici, e che preferisce venire a patti con la mafia piuttosto che denunciarne i ricatti. In questi casi il binomio paura-pagamento del “pizzo” non ha giustificazione. Non ci troviamo di fronte un banchetto di verdura alla Vucciria di Palermo, o ad una piccola bottega della periferia di Napoli, parliamo di aziende quotate in borsa, con sedi a Ravenna, Milano e Torino, con amministratori delegati che mai avranno contatti con i malavitosi e, tra l’altro, con relazioni personali ed istituzionali che possono garantire la più ampia sicurezza. Imprese che dovrebbero dare l’esempio di legalità. “Eppure queste imprese pagano”, e la Confcommercio spiega perchè: “Non c’è altra risposta convincente: perché conviene così!” Il Censis, dopo aver consultato settecento imprese, aggiunge che senza «lo zavorramento mafioso annuo» le regioni del Mezzogiorno sarebbero sviluppate come quelle del Nord.

Ma un dato narra meglio di ogni altra indagine quello che sta accadendo: nella più moderna clinica di tutta l’isola, la Santa Teresa di Bagheria, di proprietà di un presunto prestanome di Provenzano, la Regione Siciliana versava per ogni ciclo completo di terapia antitumorale alla prostata 136 mila euro. Ora, dopo il sequestro da parte della procura, lo stesso ciclo costa 8.093 euro. Ci sono 127 mila euro di differenza che finiscono, per l’accusa, nelle tasche di Cosa nostra. E’ una somma che se moltiplicata per le centinaia di pazienti curati ogni anno porta a incassi milionari per i boss. E allora diventa chiaro che Cosa nostra non conviene, che gli amministratori pubblici, collusi o distratti, vanno emarginati non per moralismo, ma per un semplice calcolo economico. I soldi che gestiscono sono nostri. E non della mafia.

La mafia però per qualcuno non esiste. Ormai è solo ricotta e qualche vecchia lupara. Chi può pensare che un contadino come Provenzano stringa patti con uomini eleganti, dai buoni studi e dalle raffinate letture? Nessuno.

L’informazione libera e indipendente serve proprio a questo, a far aprire gli occhi ai cittadini, a far in modo che possano tornare a riflettere, ad analizzare. Ma tutto ciò non piace a chi gestisce questa nuova Cosa nostra, formata da capimafia che sono ben inseriti nel sociale, nei salotti bene delle città.

Negli ultimi dieci anni i capimafia arrestati sono risultati medici, primari, avvocati, aspiranti parlamentari, professionisti, ingegneri e politici. Tutti con una laurea in tasca. Tutti con un grado di istruzione superiore ai vecchi boss corleonesi che preferivano utilizzare la lupara per concludere gli affari. I nuovi boss utilizzano la diplomazia e gli agganci con la politica e alla manovalanza affidano attentati e omicidi.

E’ per questo che la parola e la cultura mette loro paura. E’ per questo che tentano di imbavagliare l’informazione, o tentano di avvicinare i giornalisti. E quando non ci riescono passano alle vie di fatto, alle intimidazioni.

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