Il clan di Ostia facente capo a Carmine Fasciani è mafioso. A sostenerlo è la Sesta Sezione Penale della Cassazione nelle motivazioni con cui spiega perché, il 26 ottobre scorso, ha accolto il ricorso della Procura generale di Roma contro la sentenza d’appello che, il 13 giugno del 2016, aveva fatto cadere l’aggravante mafiosa contro il gruppo criminale. Il procedimento in questione è quello nato dall’inchiesta “Nuova Alba” che, a fine gennaio del 2015, in primo grado aveva comminato a don Carmine e ai suoi sodali oltre 200 anni carcere, poi scesi drasticamente a poco più di 50 proprio in appello perché per i giudici non sussistevano i presupposti per il riconoscimento dell’articolo 416 bis del codice penale.
Ma per i giudici della Suprema Corte quella sentenza “ha violato il precetto penale” espresso dall’articolo citato e, soprattutto, è pervenuta “ad una conclusione contraddittoria quando non, per alcuni rilevanti aspetti, apodittica”. Dalla Cassazione precisano inoltre che il mancato riconoscimento del carattere mafioso del clan, non solo viola la norma incriminatrice, ma è anche palesemente illogico, visto che è lo stesso giudice di secondo grado a dare per “conseguite” le acquisizioni probatorie.
Ci sarà dunque un nuovo processo d’appello relativamente all’accusa di mafia con la Corte che, “in diversa composizione”, dovrà riesaminare la vicenda partendo proprio dal carattere mafioso del gruppo; si dovrà allora rivalutare “ogni questione” in merito alla partecipazione al clan degli imputati rivalutandone il “relativo grado” all’interno del sodalizio e la “consapevolezza” nel farne parte.
Ci si aspetta quindi che, nell’appello bis, il nuovo collegio giudicante tenga presente che il reato di associazione di stampo mafioso, così come delineato nell’articolo 416 bis, non riguarda solo le grandi “associazioni di mafia ad alto numero di appartenenti, dotate di mezzi finanziari imponenti e in grado di assicurare l’assoggettamento e l’omertà attraverso il terrore e la continua messa in pericolo della vita delle persone”, ma anche gruppi piccoli, composti di almeno tre persone, non necessariamente armate che però sottomettono un determinato territorio o un settore d’attività avvalendosi del metodo dell’intimidazione e con il quale, poi, ottengono omertà e assoggettamento.
La Sesta Sezione, nelle motivazioni, ribadisce l’orientamento giurisprudenziale in caso di mafia non tradizionale, e cioè quello secondo cui affinché si configuri il reato previsto all’articolo 416 bis “la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo può essere diretta a minacciare tanto la vita o l’incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti, ed il suo riflesso esterno in termini di assoggettamento non deve tradursi necessariamente nel controllo di una determinata area territoriale”. Per la Suprema Corte basta quindi che le organizzazioni rivolgano le proprie mire “a danno dei componenti di una certa collettività, a condizione che si avvalgano di metodi tipicamente mafiosi”.
Per dirla in breve, è come se la Cassazione avesse posto l’accento sulla molteplicità degli aspetti che la mafia può assumere, fermo restando alcuni caratteri essenziali. Perché se è vero che la mafia è camaleontica e sa stare al passo con i tempi, forse è altrettanto vero che le norme devono essere applicate sapendo leggere i mutamenti strategici e sociali.
E siccome le sentenze fanno giurisprudenza, forse quest’ultima potrebbe anche rafforzare le ragioni della Procura di Roma che, poco meno di un mese fa, ha depositato il ricorso contro la sentenza di primo grado di Mafia Capitale che non ha riconosciuto l’associazione mafiosa ai due gruppi guidati da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi. “Fare giurisprudenza” non significa certo creare un automatismo, così come accade nei sistemi anglosassoni perché si trasformerebbe in questo caso in una mutuazione inesatta, ma forse Pignatone e i suoi possono guardare al secondo grado con un precedente rilevante.