Nel bunker di Falcone e Borsellino
A trent’anni dalla prima sentenza del Maxi Processo alla mafia siamo andati nel bunkerino di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ad accoglierci Giovanni Paparcuri. Abbiamo parlato anche dell’appunto di Falcone ritrovato pochi giorni fa…
Da oltre trentadue anni Giovanni Paparcuri apre le porte blindate del bunkerino che fu la “casa” di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino presso la Corte di Appello di Palermo. Dove prima lavorava il pool antimafia oggi troviamo un piccolo museo alla memoria dei due magistrati uccisi nel 1992. Giovanni Paparcuri ha lavorato con loro per circa 10 anni e oggi, venticinque anni dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, apre ancora quegli uffici per i ragazzi delle scuole.
La Corte di Appello di Palermo, l’Associazione Nazionale Magistrati e la fondazione “Progetto Legalità Onlus”, dal 26 maggio 2016, hanno ridato vita agli uffici dei due giudici, trasformandoli appunto nel “museo Falcone e Borsellino”, e chi meglio di Giovanni Paparcuri poteva riportarli fedelmente come un tempo? “Non mi piace chiamarlo museo, – spiega Giovanni Paparcuri ad Alqamah.it – ricorda qualcosa di vecchio e di polveroso. Questo non è un luogo di morte, ma di vita. Qui si può cogliere il lato professionale ma anche quello umano, erano due uomini allegri, scherzosi e si facevano anche dispetti a vicenda”.
Oggi, dopo la pensione, quasi ogni giorno accompagna gli studenti provenienti da tutta Italia all’interno del bunkerino che ormai considera la sua seconda casa: “La mia seconda casa? Direi anche la prima casa. Qui ho passato tanti momenti intensi al fianco di Falcone e Borsellino durante il lavoro con il pool antimafia e, oggi, continuo il lavoro con i ragazzi delle scuole. – racconta ad Giovanni Paparcuri – A loro vanno insegnati i veri valori della legalità, cioè essere persone oneste nella vita e rispettare sempre le regole”.
Incontriamo Giovanni proprio nel mezzo di una visita guidata con una scolaresca di Barcellona Pozzo di Gotto: “Non voglio essere semplicemente un cicerone, uscendo da qui loro devono avere bene in mente che Falcone e Borsellino non erano eroi, ma persone normali che hanno lottato per una causa giusta e che oggi bisogna continuare con le proprie idee, portando avanti i valori di legalità, a partire dalla scuola e dalle azioni quotidiane” – sottolinea ai ragazzi. “Dal giorno dell’apertura da qui sono passati 10160 persone, gran parte scolaresche e in prevalenza dal nord Italia. Qui è venuta anche una donna che in quegli anni si lamentava per le sirene delle auto di scorta dei magistrati e dei giudici di Palermo, l’ho trovata davanti la scrivania di Falcone in lacrime”.
Lui però è un sopravvissuto. Porta ancora i segni di un tremendo attentato. Da autista di Falcone passa per un breve periodo alla guidare dell’auto del giudice Rocco Chinnici, ideatore del pool antimafia. Il 29 luglio del 1983 un auto imbottita con 75 kg di esplosivo, parcheggiata in via Pipitone Federico a Palermo, uccise Rocco Chinnici, il maresciallo Mario Trapassi e l’appuntato Salvatore Bartolotta. L’unico superstite è proprio Paparcuri. “Quel giorno la mafia non uccise solo loro. – sottolinea– I due carabinieri avevano 11 figli in due. Io di quegli attimi non ricordo molto, ho iniziato a ricordare solo tempo dopo. Vedi queste macchie di sangue? – aggiunge Paparcuri mentre ci mostra la foto dei resti delle auto dopo l’attentato a Chinnici – è il mio. Ho deciso di metterla in questa stanza come memoria storica”.
Di quell’attentato però porta ancora i segni: Due dita della mano destra tranciate e riattaccate, schegge di vetro ancora in testa, il gomito malconcio, danni ai timpani, una spalla deformata. Segni indelebili. “Questo è il regalo che mi ha fatto la mafia. Ricordo poco, in quel momento mi sentivo leggero, ho visto solo un tunnel di luce bianca. Nessun dolore”.
Dopo l’attentato viene “declassato” di due livelli, quindi a mansioni minori. Lascia le blindate e finisce per fare altro. Ma non si arrende. Il giudice Giovanni Falcone si ricorda di lui è lo chiama ad informatizzare le carte del maxi processo nel suo bunkerino. Per lui una rinascita. “Sapevano della mia passione per l’informatica e mi chiesero di aiutarli. Fu una sorta di premio. Come essere nato una seconda volta, ma nello stesso tempo un onore e anche un onere. Così presi in mano il lavoro già avviato da una ditta esterna e iniziai a creare la banca dati, internalizzando il sistema”. Un lavoro fondamentale per la riuscita del maxi processo alla mafia siciliana. Una banca dati poi ereditata dalla Procura e che ancora oggi porta il nome di “banca dati Paparcuri”. “Ho lavorato con loro circa 10 anni. Qui dentro ho vissuto momenti difficili, intensi, ma anche belli ed emozionanti. Sono tanti i ricordi con loro, molti li tengo per me”. Nel bunkerino in quel periodo era un via vai di magistrati, poliziotti e giudici. Era il 1985, l’anno della nascita del pool antimafia di Antonino Caponnetto (che ha poi sostituito Rocco Chinnici), Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello.
Nel bunkerino il tempo sembra essersi fermato. Paparcuri ha ricostruito gli uffici dei due giudici in modo fedele: dalle paperelle in legno di Falcone sulla scrivania (oggetto di continui scherzi di Borsellino), alle sue sigarette preferite, dalle carte originali in cui annotava gli omicidi di mafia, alle borse e cappotti originali, la cassaforte sotto la finestra, i fascicoli sul maxi processo, i floppy disk con le dichiarazioni di Buscetta, i monitor della videosorveglianza, i vecchi computer e molto altro. “Questa – spiega indicando una vecchia macchina da scrivere – è quella del giudice Borsellino, usata anche dal figlio Manfredi per scrivere la sua tesi di laurea. Ho cercato di riportare tutto come se fosse ancora un ufficio operativo. Tutto è originale”. Tutto ordinato come allora, sembra quasi che i due giudici dovessero tornare da un momento all’altro.
“Io qui oltre a spiegare chi erano loro racconto anche aneddoti, gli appunti, come nasce il mandato di cattura di Buscetta, racconto la loro storia in questo posto che per noi era come un rifugio. Dopo il fallito attentato all’Addaura – aggiunge – il dottore Falcone venne qui in ufficio, qui si sentiva al sicuro, isolato. Era la nostra casa. Tra queste mura loro hanno lottato la mafia ma anche contro i veleni di alcuni colleghi, in quegli anni fu chiamato proprio il Palazzo dei veleni”.
“In questi giorni, nel trentesimo anniversario della prima sentenza del maxi processo, mi viene in mente il sorriso del dott. Falcone. Lui era seduto dietro la sua scrivania, mi chiamò “papa, vieni”, lo vidi soddisfatto, felice, sorridente. “Papa, abbiamo vinto”, c’erano state le condanne del maxi processo. Subito dopo il brindisi con i colleghi del pool con l’immancabile bottiglia di Chivas. Solo per occasioni speciali” – spiega sorridente Giovanni Paparcuri.
In questi giorni è tornato agli onori della cronaca un ritrovamento particolare fatto da Paparcuri tra gli appunti di Falcone. Su un foglio a quadretti ingiallito si legge: “Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni a Grado e anche a Vittorio Mangano”. Il fatto è stato riportato dal giornalista de La Repubblica Salvo Palazzolo. Un appunto che torna ad accendere i riflettori su un caso ancora aperto. Il foglio, di cui molti hanno dubitato l’esistenza, esiste ed è scritto a mano da Falcone. Giovanni Paparcuri ce lo mostra e sottolinea: “Eccolo, l’appunto è questo, la grafia è di Falcone. – spiega – L’ho trovato il 17 novembre. In molti sostengono che è stato tirato fuori in un momento particolare. Ma è stato casuale. Ho trovato anche altre cose…” – aggiunge mostrandoci una vecchia carpetta e i tanti assegni sulla scrivania di Falcone che simboleggiano il cosiddetto “metodo Falcone”, ovvero la scia del denaro dell’organizzazione mafiosa. Sulla possibilità di altri appunti segreti e ancora da scoprire però taglia corto: “No, non credo. È stato trovato per coincidenza. I politici? A me non interessano. Falcone diceva sempre: ‘Se arresto un politico ne faccio felici alcuni e ne faccio scontenti altri’. Non abbiamo certo scoperto l’acqua calda. Semmai è la prova del fatto che Falcone se non c’erano riscontri non andava avanti. È solo un appunto, ma certamente non l’ha strappato. Diciamo che bisognava cercare meglio dopo la sua morte 25 ani fa, ma non è stato fatto”.
“Di Borsellino ho un particolare ricordo: ci siamo conosciuti in ospedale, io stavo per entrare in sala operatoria in seguito alle conseguenze dell’attentato di via Pipitone Federico. Fermò la lettiga per farmi coraggio con una piccola pacca sul petto, ma io avevo i polmoni e il petto indolenziti per le schegge. Il dottore lo capì solo dalle mie urla. Da lì poi lo rividi qui, quanto mi chiamarono per lavorare con loro. Un altro momento che non dimenticherò mai – racconta Paparcuri ad Alqamah.it – è stato quando stavo portando mia figlia di appena un mese dalla pediatra e mi fermò il dott Borsellino in strada: Scese dalla macchina per salutarmi ma appena vide la piccola mi disse ‘ma c’è tua figlia in macchina?’. Non mi salutò più, si chinò sul sedile posteriore e la baciò sulla fronte e andò via salutandomi”.
“Oppure come dimenticare il giorno del mio matrimonio. Gli ospiti neanche si accorsero degli sposi, le attenzioni erano tutte per loro che facevano cabaret, raccontavano barzellette e scherzavano con tutti. Erano molto allegri e di compagnia. Altri momenti – sottolinea – li porto dentro con me”.
“Palermo oggi è sicuramente cambiata. Però adesso c’è la mafia, l’antimafia e la falsa antimafia. Cos’è cambiato non lo so. La morte di Riina? Non cambia molto. Il potere andrà nelle mani di un altro. È cambiata però la società civile, i ragazzi qui venticinque anni fa non avrebbero mai pensato di venire, e neanche voi ad intervistarmi. Prima, di certi argomenti, non si poteva parlare, adesso sì. Ogni tanto se ne straparla, come nel caso della cosiddetta finta antimafia. Ognuno di noi deve combattere nel proprio piccolo la cultura mafiosa, le raccomandazioni, le strade “facili”, perché non sono mai le strade giuste”.
foto tratte dalla pagina facebook di Giovanni Paparcuri
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