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Creare collegamenti: un impegno che va oltre FILI

Sofia Nardacchione il . Emilia-Romagna

DSC_0925 ACreare collegamenti significa anche farsi carico di storie, di esperienze, di dolori. Ed è iniziata così la seconda parte del Festival dell’Informazione Libera e dell’Impegno che si è svolta a Bologna dal 29 novembre al 2 dicembre, grazie al lavoro di Libera Bologna e Libera Informazione.

Creare collegamenti significa rendere proprie storie lontane proprio per quel “dalla memoria nasce l’impegno” che spesso sentiamo dire. Ed è proprio così, perché ascoltare le storie dei familiari delle vittime innocenti delle mafie vuol dire questo: capire come il dolore si è trasformato ed è diventato forza. Forza di raccontare il dolore, forza di non vergognarsi delle lacrime, forza di trovare speranza, di lasciare qualcosa.
E tanto, io credo, hanno lasciato le storie di Daniela Marcone e Tilde Montinaro nei ragazzi del Liceo classico Galvani che le hanno ascoltate.

“Nonostante la sua breve vita, io credo che abbia avuto tante vite”, dice Tilde parlando di suo fratello Antonio, il caposcorta di Giovanni Falcone, morto nella Strage di Capaci quel 23 maggio del 1992. Sono ricordi di una quotidianità spezzata, quelli che racconta Tilde, che lascia frasi importanti ai ragazzi: “Ognuno di noi può arrivare ad un bivio, e scegliere da che parte stare. Antonio davanti al bivio, pur avendo paura, ha scelto la strada della responsabilità”.

Sono passati venticinque anni, e noi ancora non conosciamo la verità, una verità di cui tutti dobbiamo farci carico. Continua Tilde Montinaro: “Quando è morto Totò Riina non ho gioito, l’unica cosa che ho pensato è che se n’è andato senza raccontarci nulla. E noi di quella verità abbiamo bisogno. Ma è una necessità che dovete avere anche voi, perché in uno stato democratico la verità dovrebbe essere un diritto”.

Questo è il senso del 21 marzo: ricordare, insieme, e chiedere verità, insieme. Lo ricorda Daniela Marcone, figlia di Francesco, direttore dell’Ufficio del Registro di Foggia assassinato nella sua abitazione il 31 marzo del 1995. Daniela, che oggi è responsabile del settore memoria di Libera, conclude così il suo intervento: “C’è un momento in cui le memorie collettive muoiono. La memoria collettiva sulle vittime di mafia ci permette di sviluppare una memoria sociale, che rimane anche quando le memorie collettive muoiono. Ed è per questo che dobbiamo farcene carico tutti”.

E quindi, “fateli vostri quei nomi, fateli diventare una parte di voi. Solo così potremo farli sentire vivi e forse, forse, avremo vinto”.

Daniela ha detto così: “mettere a fuoco, mettere in luce tutti i collegamenti. Questo ha fatto mio padre”. Ed è bello pensare che, nel nostro piccolo, stiamo facendo lo stesso, non solo sul territorio di Bologna, ma cercando di illuminarne anche altri. Così all’interno della seconda edizione di FILI si è parlato anche delle mafie pugliesi. Sono mafie che sanno fare rete, mafie delle interconnessioni, mafie che sono saltate alle cronache il 9 agosto del 2017 quando sono stati uccisi due contadini, testimoni scomodi di altri due omicidi di mafia. Ma, ricorda sempre Daniela Marcone, che sul territorio di Foggia ha deciso di rimanere e seminare il suo impegno, anche prima del 9 agosto nel foggiano si sparava tutti i giorni, ma non c’era la percezione del fenomeno da parte della cittadinanza, caduta in una sorta di “assuefazione alla violenza”.

Continua Piernicola Silvis, ex questore di Foggia e scrittore, che afferma che quella delle mafie pugliesi è un’espansione che non si è mai fermata, con centinaia di morti e nessuno che ne parla . “Prima del 9 agosto ci dicevamo: di morti eccellenti ne abbiamo già avute, cosa stiamo aspettando? Che uccidano un procuratore, un bambino innocente? Il 9 agosto hanno ucciso due innocenti e solo allora qualcuno si è mosso. Ma perché non invertiamo la tendenza e iniziamo a svegliarci prima che arrivino i morti eccellenti?”.
In una situazione del genere è necessario “raccontare la non casualità delle vittime in Puglia”, dice Daniela Marcone, che ha curato il libro “Non a caso”. Perché i delitti di mafia non avvengono mai a caso: “dobbiamo avere la forza di decodificare questa cultura. Non possiamo dire che le persone uccise si trovavano al posto sbagliato nel momento sbagliato”.

E, conclude Silvis: “Quando vedo che qua date importanza anche a operazioni, a inchieste, anche se non è arrivata una sentenza eclatante, anche se non c’è il morto ammazzato, quando vedo che pubblicate i dati sul narcotraffico, io ritrovo la forza. Ritrovo la forza e ho rabbia, perché da noi questo non fa notizia”.

DSC_0912 AMa neanche in Emilia Romagna è sempre facile raccontare le mafie. E’ proprio di questo che si è parlato nella giornata di sabato, l’ultima del festival, in una narrazione che è partita dalla Calabria per arrivare in Emilia e tornare in Puglia, con Antonio Nicola Pezzuto, giornalista che da anni per Libera Informazione racconta un territorio dove sempre più è difficile districarsi all’interno di un “reticolare consenso sociale crescente”.

“Raccontare le mafie in Calabria è un conto, diverso è in Emilia Romagna. Arrivato qua – dice Giuseppe Baldessarro, giornalista di Repubblica – ho dovuto cambiare il modo di raccontare”. Baldessarro non parla di una sola ‘ndrangheta: “Qua esistono le ‘ndranghete: quella economica, quella della distribuzione e del commercio e quella che controlla il territorio da vicino, anche con la violenza”. Ma il giornalista di Repubblica Bologna ricorda anche una frase di un boss dei Piromalli, una delle ‘ndrine calabresi più potenti: “Tu ricordati. Il mondo si divide in due: quello che è Calabria e quello che lo diventerà”. Ecco, “se gli affari della ‘ndrangheta continuano come adesso, tra dieci anni parleremo di un’altra Emilia Romagna, e non sono sicuro sarà positiva”.

Anche perché spesso, afferma Paolo Bonacini, giornalista che per la Cgil sta seguendo tutte le udienze del processo Aemilia, “spesso vediamo come nemici coloro che vogliono far emergere quello che avviene sul territorio”. E raccontare la ‘ndrangheta emiliana non è facile: è una “‘ndrangheta 5.0”, come viene definita dal collaboratore di giustizia Antonio Valerio, una ‘ndrangheta fluida, orizzontale, che si muove per linee parallele.

Ed è una ‘ndrangheta infastidita da coloro che ne parlano: lo dimostra la richiesta degli imputati di non ammettere i giornalisti all’interno dell’aula bunker dove si sta celebrando il rito ordinario del processo Aemilia. Richiesta ovviamente respinta dal Tribunale ma che ci spinge ancora di più a osservare, approfondire e raccontare quello che avviene sul nostro territorio.

E quindi, il nostro lavoro continua oltre il Festival dell’Informazione Libera e dell’Impegno, che tornerà per la terza edizione a dicembre 2018. Ma creare collegamenti e unire fili continuerà ad essere alla base del nostro impegno quotidiano, con una forza in più: quella che ci hanno lasciato tutti coloro che hanno partecipato a FILI, donandoci storie e pezzi del loro impegno.

Fili, a Bologna la seconda edizione del Festival

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