I benefici del giornalismo universitario? Sono incalcolabili
Uno spazio di frontiera in cui,
all’interno di un quadro di regole, ognuno sia libero di esprimersi.
Questo il giornalismo universitario secondo il professor Maurizio
Caserta, ordinario di Economia politica nell’ateneo catanese.
«Rinunciare a questo spazio sarebbe tradire la missione stessa
dell’Università»
Quando si
schematizza la funzione dell’Università si dice che essa svolge
processi produttivi di formazione e processi produttivi di ricerca. Si
tratta di una schematizzazione necessaria: altrimenti sarebbe molto
difficile misurare il prodotto dell’Università e soprattutto sarebbe
molto difficile valutarlo. E sarebbe anche molto difficile stabilire
come spendere i soldi. Da qui la necessità di contare il numero dei
laureati, sia pure con qualche ponderazione, di contare i brevetti, gli
spin-off, gli accordi di collaborazione, di calcolare tutti gli indici
bibliometrici disponibili, insomma di fare tutto ciò che è necessario
per capire se il prodotto formativo e scientifico dell’Università
giustifica la massa di spese sostenuta. In questo delirio efficientista
si potrebbe perfino sperare che tutto abbia un valore di mercato, così
che non sarà neanche necessario fare i calcoli poiché sarà il mercato a
farli.
Ha a che fare tutto questo con il giornalismo universitario? Direi di
sì, perché il giornalismo universitario è uno di quegli esempi di
attività formativa che producono effetti non solo sui destinatari
diretti, ossia gli studenti, ma anche sulla comunità che sta fuori
dell’Università. Questo fatto può essere fonte di imbarazzo quando si
pone mano alla misurazione del prodotto dell’università. Infatti,
finché il prodotto è chiaramente associabile ad un destinatario la
misurazione è un’operazione possibile: è come se il prodotto fosse
scomponibile in porzioni. Ma quando questa scomposizione è impossibile
perché il beneficio arrecato è un beneficio diffuso, ed è questo il
caso di un giornale universitario che abbia anche la funzione di
informare la città oltre a quella di essere un laboratorio didattico
per gli studenti, la misurazione diventa pressoché impossibile a meno
che non si voglia chiedere a tutti i beneficiari del servizio, già
difficili da identificare, quanto sarebbero disposti a spendere per
quel servizio se esso non esistesse già. Occorre notare che non si
tratta di una difficoltà di natura meramente tecnica: la difficoltà di
misurare i benefici arrecati implica la difficoltà di far pagare (non
necessariamente in termini monetari) qualcuno per quel beneficio. E
questa è una implicazione assai sgradita a tutti quegli organi che
hanno il controllo di risorse da spendere. In questo quadro, pertanto,
il giornalismo universitario non ridotto a laboratorio didattico è
un’attività priva di alcun interesse, anzi decisamente pericolosa
poiché provoca effetti incontrollabili.
Il giornalismo universitario dunque, ma anche altre attività con
caratteristiche simili, mal si adattano ad una idea di università
contrattualizzata, ossia una università in cui tutte le prestazioni
vengono inserite in un ipotetico ‘contratto’ che ha sempre due parti:
da un lato l’Università, dall’altro, a seconda dei casi, gli studenti,
le imprese, gli enti di ricerca, le altre istituzioni. In questa
prospettiva la funzione pubblica della università si affievolisce,
perché il rapporto negoziale tende a sostituire l’obbligo di legge. Ciò
può apparire un passo verso la modernità e la sana efficienza
economica; in verità può diventare un passo verso la marginalità.
Nel complesso rapporto tra diritto ed economia è bene che nessuno dei
due termini della questione sia interamente sottoposto all’altro. Il
primato dell’uno sull’altro porta inevitabilmente al disastro economico
e politico. La crisi economica di questi mesi deriva proprio da un
malinteso primato della economia sul diritto. Un giornalismo
universitario ridotto a mera prestazione contrattuale nel rapporto
‘privato’ tra università e studenti è un esempio di cattivo primato
della economia sul diritto. L’Università deve avere, e presidiare con
lo strumento del diritto, spazi pubblici sia nella formazione sia nella
ricerca. Questi spazi non possono essere contrattualizzati; devono
essere spazi di frontiera in cui, all’interno di un quadro di regole,
ognuno sia libero di esprimersi. È solo dall’esercizio di questa
libertà, che solo il diritto può garantire, che può derivare
l’innovazione culturale, politica e scientifica. Possono gli organi di
governo di un ateneo rinunciare a rendere fruibili questi spazi? Se lo
facessero tradirebbero la missione stessa dell’università
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