La “Sicurezza” è altro dalla repressione sociale
Leggo con stupore e preoccupazione, nell’ultimo numero di Liberainformazione, lo scritto di Piero Innocenti La “Sicurezza” deve essere la priorità in un paese serio. Dissento profondamente. Su due profili, in particolare, che voglio segnalare nella speranza che in Libera, e nell’area culturale che fa ad essa riferimento, si apra almeno un dibattito sul punto.
Il primo profilo di dissenso riguarda il caldo apprezzamento riservato alla politica del ministro Minniti nei confronti dell’immigrazione («compito difficilissimo che, tuttavia, il Ministro dell’Interno sta affrontando con grande determinazione e impegno che tutti gli riconoscono e mai riscontrati in passato»). Provo a riassumere. Il punto fondamentale della politica perseguita dal ministro dell’interno in tema di immigrazione è il contenimento dei flussi di disperati provenienti dalla Libia. Un contenimento perseguito alleandosi con un governo incapace persino di controllare il proprio territorio per impedire, anche con l’invio di unità militari di sostegno, l’imbarco di migliaia di disperati così consegnandoli – come denunciato da tutti gli osservatori – agli stupratori, ai torturatori, ai miliziani senza scrupoli o respingendoli a morire nel deserto. Un contenimento perseguito, ancora, imponendo alle Organizzazioni non governative impegnate nel salvataggio di vite umane nel Mediterraneo, un codice di comportamento in violazione delle più antiche leggi del mare (come la possibilità di trasbordo dei naufraghi) e della più elementare etica solidaristica (con l’imposizione di presenze armate a bordo delle navi) e così costringendole, di fatto, a ritirarsi lasciando il campo alle sole unità di Frontex (preposte, come dice il nome stesso, non alla ricerca e al soccorso ma al fronteggiamento e al respingimento). «Non era ancora accaduto – come ha scritto Marco Revelli – nel lungo dopoguerra almeno, in Europa e nel mondo cosiddetto “civile”, che la solidarietà, il salvataggio di vite umane, l’“umanità” come pratica individuale e collettiva, fossero stigmatizzati, circondati di diffidenza, scoraggiati e puniti». E ciò in presenza di flussi quantitativamente inferiori a quelli dell’anno precedente (secondo i dati dello stesso Ministero e nonostante la campagna di drammatizzazione in atto), suscettibili di un governo razionale attraverso la previsione di corridoi umanitari controllati, una politica di accoglienza decentrata sul territorio e la concessione di permessi di soggiorno per motivi umanitari (prevista dall’art. 20 del testo unico immigrazione, già sperimentata nel 2011 in occasione della “primavera” tunisina e idonea a consentire la libera circolazione dei migranti nell’area Schengen).
Il secondo profilo di dissenso riguarda la concezione della “sicurezza”, considerata come l’altra faccia della repressione, tanto che nell’articolo, si stigmatizzano «le parti politiche che in passato hanno contribuito a fare leggi troppo blande, che consentono a molti malviventi di tornare rapidamente in circolazione». Anche questa analisi non coglie nel segno. Certo ci sono fatti di criminalità efferata o, comunque, deplorevoli e casi di colpevole inerzia istituzionale a cui va posto rimedio. Ma la ragione profonda dell’insicurezza non sta nel prevalere di un inaccettabile “buonismo” e nella conseguente mancanza di una repressione adeguata. È vero – come scrive Innocenti – che i dati statistici sono spesso fallaci perché non considerano il sommerso (che, peraltro, c’è oggi esattamente come c’era ieri) ma ciò non toglie il fatto che dal 1991 ad oggi i detenuti sono lievitati da 35.469 a 56.919 (dato del 30 giugno 2017) a fronte di un calo dei reati più gravi, gli omicidi, da 1.901 a 468 (dato del 2015). Eppure il senso di insicurezza dei cittadini è cresciuto in maniera esponenziale. Non per caso. Ma perché la «sicurezza», a cui, legittimamente e giustamente, aspiriamo tutti è altro rispetto alla repressione penale: è avere una prospettiva di vita degna di essere vissuta per noi e per i nostri figli, è vivere in un ambiente accettabile e ospitale, è sapere di non essere considerati rifiuti per il solo fatto di essere vecchi o malati o stranieri e via elencando. Se non cambierà l’attuale scenario non saremo mai sicuri, nemmeno aumentando le pene…
La «sicurezza» è una cosa terribilmente seria e delicata e come tale va affrontata. So bene che le ragioni della paura e dell’inquietudine stanno anche nella diffusione di forme di criminalità e di comportamenti devianti; e so che, in ogni caso, a chi ha paura occorre dare risposte e non citare statistiche. Ma ciò rappresenta l’inizio, non la fine, del discorso. È, in altri termini, la base su cui costruire con pazienza e senza demagogia risposte attendibili: un rilancio del welfare che tenga conto dell’esperienza e dei fallimenti del passato; una politica alta, che si proponga di governare fenomeni sociali complessi e non di esorcizzarli seminando odio e paura; una informazione che provi a rappresentare la complessità del reale e non a proporne letture ad effetto (così ponendosi, essa stessa, come veicolo potentissimo di insicurezza); politiche di integrazione rigorose e, insieme, lungimiranti; interventi di riqualificazione (o di qualificazione tout court) e di controllo partecipato del territorio sorretti da adeguati stanziamenti di risorse; e – certamente – politiche specifiche sulla criminalità, ma, finalmente, dirette soprattutto a tutelare e sorreggere le vittime (da sempre strumentalizzate e dimenticate).
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