Continuare a scrivere e informare
Ma serve, serve, davvero, scrivere un altro articolo? Sul sud, sulla protervia mafiosa, sulle aggressioni ai cronisti che si moltiplicano, sulla politica che ara il terreno della delegittimazione perché meno stampa libera significa meno controllo. Serve scriverlo? Ogni volta sembra di riappendere un quadro al muro ben sapendo che in quella stanza non entra nessuno, quella parete è zeppa di testimonianze di quanto succede quotidianamente, ma se non genera dibattito, decisione e cambiamento, ho sempre più il sospetto non serva a nulla. Cosa mi è successo? Ero arrivato a Vieste, nel centro storico, dove nell’anno 2017, si ammazza alle 3 del pomeriggio. La telecamera dava fastidio e la mia presenza anche. Un calcio, spintoni e poi il mio aggressore mi ha sbattuto la testa contro un muro, fermato dai carabinieri, continuava a scalciare. Mi è andata bene, un trauma contusivo facciale, lacrime di sangue poche, spavento tanto e qualche ora al pronto soccorso. L’ho denunciato. Passa, passa tutto, ma alcune cose restano tutte e sempre uguali. Da due anni convivo con un’altra situazione le minacce di un boss e di suo fratello, carpite dalle cimici dei carabinieri.
Allora, quando seppi della notizia, da un giornale mica dal prefetto, scrissi: “Continuo a fare il mio lavoro”. Questa volta non ho avuto la forza. Ma non è per l’aggressione, per lo spavento, ma per il contesto nel quale maturano questi atti, queste continue insidie.
Quello che non deve passare, anzi deve iniziare, è prendersi cura di quella terra. Prendersi cura significa parlare di quello che sta accadendo. Sui giornali la notizia dell’omicidio è nei trafiletti, alcuni giornali neanche l’hanno riportata. Foggia forse non è Italia? La società foggiana, la mafia, che cresce economicamente e in termini di violenza non interessa? La mafia dei montanari della fascia garganica in guerra è un racconto di serie b? Io stavo facendo il mio dovere come lo fanno decine di colleghi in terra di mafia. Io non faccio niente di speciale, io sono solo un cronista, ed è lungo l’elenco di quelli che vengono aggrediti, intimiditi. Meno siamo a raccontare e più siamo soli. Però poi vogliamo dirci qualcosa sulle condizioni nelle quali si racconta? Con quali contratti? Con quali garanzie? Perché seminare precarietà significa raccogliere minore autonomia e libertà. E’ inevitabile.
Ogni potere, da quello criminale a quello politico a quello imprenditoriale, lavora per ridurre gli spazi di libertà. Le aggressioni, le intimidazioni e le querele temerarie fanno un male diverso. Le ho conosciute tutte e hanno lo stesso scopo: spegnere il racconto. Ho ricevuto solidarietà da amici e colleghi, persone comuni (il mio ordine regionale è presente solo per incassare la quota annuale, sono anche in ritardo quest’anno), ma non sono più ottimista, resto rigoroso, intransigente, ma sempre meno ottimista. Ad una collega hanno sfasciato l’auto, distrutto la telecamera mesi fa. Oggi da sola porta la croce di quanto accaduto mentre tratta un mezzo contratto a tempo e cerca notizie. E sono decine i colleghi nelle stesse condizioni. Attorno cresce malerba e aumenta. La malerba della doppia velocità, quella dei mediocri di buone relazioni e quella di chi sbatte contro la realtà e prova a raccontarla. E’ così, ma si cammina senza voltarsi perché ogni volta verrebbe voglia di rallentare e fermarsi.
A me atterrisce l’idea di lasciare il mio sud a chi spara in pieno centro alle 3 del pomeriggio, di lasciarlo ai criminali. Ed è solo per questo che ancora resta voglia di continuare a raccontare perché sono nato in un posto sventrato da politica criminale e malavita e appare ancora inaccettabile, ai miei occhi, abituarsi all’idea che alla fine vincano loro.
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