La lezione di Rita Atria che disse no alla schiavitù della mafia*
Abbiamo ricordato Paolo Borsellino, non possiamo dimenticare Rita Atria. Rita nasce a Partanna, in provincia di Trapani, da una famiglia di mafia. Il padre Vito, piccolo boss locale, viene ucciso nel 1985 e Rita, che ha solo undici anni, riversa il suo affetto su Nicola, il fratello maggiore. Ma anche Nicola segue la strada paterna, nonostante la moglie Piera, di famiglia onesta, faccia di tutto per dissuaderlo. Traffica droga, sgomita per emergere ma pesta i piedi di chi è più potente di lui. Viene ucciso nel giugno del 1991. La moglie Piera diventa testimone di giustizia e viene trasferita altrove sotto protezione. Rita è una ragazza di diciassette anni, sensibile, sveglia, due grandi occhi animati da un bisogno febbrile di capire, di fare chiarezza fra sentimenti contrastanti: da un lato la famiglia, il mondo dove è nata e cresciuta, dall’altro il rifiuto — il rigetto ormai — di quei codici, di quei vincoli.
A novembre del ‘91 decide di seguire la strada della cognata e la raggiunge nei luoghi dove vive protetta. Sulla scelta incide anche l’incontro con Paolo Borsellino. Tra questo magistrato schivo e quell’adolescente inquieta scatta una forte sintonia. Rita si affida a Borsellino come al padre che le è mancato. Lui la rassicura, la sostiene, non le fa mai mancare il suo affetto. Sono mesi faticosi ma intensi. Rita assapora il gusto del crescere, del guardare con occhi finalmente liberi dai condizionamenti di chi vorrebbe farti vedere solo la sua realtà.
Certo non mancano i momenti difficili, ma a sostenerla c’è la cognata, e poi quella persona straordinaria, Paolo Borsellino, che interviene quando c’è qualche problema da risolvere o quando riemerge la paura di avere fatto un passo più lungo della gamba.
Nel giugno del 1992, pochi giorni dopo Capaci, Rita prende la maturità. Tra i temi assegnati sceglie quello su Giovanni Falcone: «L’unico sistema per eliminare la mafia — scrive — è rendere coscienti i ragazzi che ci vivono dentro che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona… forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare, forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo… ».
Il sogno di quel mondo pulito s’infrange il 19 luglio in via d’Amelio. La morte di Paolo Borsellino è un vuoto che risucchia la fragile vita di Rita. Il 26 luglio si affaccia al balcone di casa e si lascia morire. La vita spezzata di Rita ha però generato tanti frutti, in questi venticinque anni. E se oggi la ribellione interna alle mafie è rappresentata soprattutto dalle donne, donne che non accettano la violenza di una società di maschi e padrini, donne che vogliono per sé e per i loro figli una vita e un mondo diversi — e che chiedono aiuto per realizzarli — è anche grazie a Rita e a chi ha scelto la legge del cuore e della coscienza invece di quella del potere, della violenza e del silenzio.
Come è anche grazie a lei se tanti ragazzi finiti negli istituti penali minorili, provenienti da famiglie o da contesti di mafia, ragazzi che Libera incontra da nove anni, iniziano un cammino di riflessione e di cambiamento, consapevoli che l’affiliazione mafiosa comporta, non solo dentro il carcere, la perdita della libertà e della dignità.
Ecco perché è importante ricordare Rita. Ma ricordare non basta: bisogna fare della memoria impegno, ricerca della verità fuori ma innanzitutto dentro noi stessi: «Prima di combattere la mafia — scriverà Rita nel suo diario — devi farti un esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici. La mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarci».
*Articolo pubblicato oggi su la Repubblica
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