Caporalato, processo Sabr: una sentenza riscatto per l’Italia
La sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Lecce al termine del processo “Sabr” di primo grado è importante perché riconosce il reato di “riduzione in schiavitù” in un procedimento giudiziario che interessa il mondo del lavoro.
L’inchiesta del Procuratore Aggiunto Elsa Valeria Mignone e dei Carabinieri del ROS ha fatto luce su ciò che è accaduto nelle campagne di Nardò tra il gennaio del 2009 e l’ottobre del 2011, periodo in cui si sono svolte le indagini.
“Ora quelli te li sfianco fino a questa sera…”, è una delle frasi pronunciate dai caporali e intercettate dagli investigatori.
Uomini trattati in maniera disumana, una triste pagina della storia salentina e italiana.
A scriverla, un’organizzazione criminale avente una struttura verticistica, composta da caporali e imprenditori senza scrupoli.
“Un’organizzazione criminale transnazionale costituita da italiani, algerini, tunisini e sudanesi, attiva anche a Rosarno e in altre parti del sud Italia”, così la definiva il GIP di Lecce, Carlo Cazzella, nell’ordinanza di custodia cautelare.
Il luogo simbolo di questa grave vicenda è la masseria Boncuri, situata nelle campagne di Nardò. È lì che veniva calpestata la dignità umana e si manifestava in tutta la sua crudeltà ed efferatezza la brama di ricchezza di persone senza scrupoli.
Gli immigrati venivano sottoposti a turni di lavoro nei campi di almeno 10-12 ore, al caldo torrido, senza riposo settimanale, per una paga di 20-25 euro, nella maggior parte dei casi in nero. Una parte consistente del salario veniva trattenuta dal caporale e dall’intermediario.
La condizione di clandestinità costringeva i lavoratori stranieri ad accettare qualsiasi occupazione per poter sopravvivere. Arrivavano soprattutto dalla Tunisia spinti dalla disperazione e allettati dalla prospettiva di un lavoro regolare in agricoltura che potesse fruttare una paga dignitosa e buone condizioni di vita.
Gli immigrati sbarcavano in Sicilia, soprattutto a Pachino, centro noto per la coltivazione del pomodoro ciliegino, e da qui venivano reclutati dall’organizzazione.
E proprio a Pachino, nel 2009, allo scopo di reclutare manodopera, si è recato Pantaleo Latino, ritenuto “promotore e organizzatore del sodalizio”.
Gli uomini erano trattati come schiavi, ammassati in casolari abbandonati e fatiscenti, privi di servizi igienici e arredi, costretti a pagare a prezzi spropositati alimenti e bevande forniti dai caporali. Se si ribellavano, venivano sottratti loro i documenti.
Le angurie che arrivavano nei centri commerciali della Lombardia e dell’Emilia Romagna erano il frutto di uno sfruttamento disumano.
Ci fu un gruppo di lavoratori, capeggiati dal giovane ingegnere camerunense Yvan Sagnet, che trovarono la forza di ribellarsi denunciando e testimoniando nel processo.
Ed è anche grazie alla forza e alla voglia di combattere di chi non si è sottomesso che si è arrivati alla nuova legge sul caporalato approvata nel 2016 al fine di colpire anche i proprietari delle aziende agricole che impiegano braccianti sfruttati.
Tra i condannati a undici anni di reclusione e all’interdizione perpetua dagli uffici pubblici, con l’accusa di “riduzione in schiavitù”, spiccano i nomi di Pantaleo Latino, ritenuto l’imprenditore che organizzava l’arrivo, la permanenza e i turni di lavoro dei braccianti, Livio Mandolfo, Giovanni Petrelli e il tunisino Ben Mahmoud Saber Jelassi.
L’inchiesta fu denominata “Sabr” dal soprannome di quest’ultimo.
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