D’Alì, l’atto di accusa
L’atto di accusa è pesante. La Procura antimafia di Palermo scavando nel tempo ha tirato fuori elementi inequivocabili sui rapporti tra l’ex sottosegretario all’Interno, il senatore di Forza Italia Tonino D’Alì, e la famiglia mafiosa dei Messina Denaro di Castelvetrano, sia con Francesco – il patriarca della mafia belicina morto, in latitanza, nel 1998 – che con l’erede del boss: l’attuale superlatitante Matteo, 55 anni, ricercato dal 1993.
I Messina Denaro erano ufficialmente i campieri nei terreni di Castelvetrano posseduti dalla famiglia D’Alì, ma i rapporti sarebbero stati ben altri. Sono stati essenziali per la sua prima candidatura al Senato nel 1994, secondo il racconto, per esempio, del collaboratore di giustizia Giovanni Ingrasciotta, che per puro caso sfuggì ad un agguato mortale organizzato da Matteo Messina Denaro. La mafia si adoperò molto secondo Ingrasciotta per sostenere D’Alì al debutto elettorale. C’erano addirittura le squadre di “picciotti” che si preoccupavano nelle ore notturne perché nessuno si permettesse di coprire i manifesti elettorali del candidato D’Alì.
Tonino D’Alì non solo per questo è un soggetto “socialmente pericoloso”: questa la considerazione che la Procura antimafia di Palermo ha del potente politico trapanese, tanto potente da uscire indenne dall’ultima campagna elettorale per le amministrative a Trapani, nonostante sia stato sconfitto al primo turno, restando fuori dal ballottaggio, e pronto a rimettere in piedi la macchina da guerra politica del movimento berlusconiano al quale è tornato a far parte dopo una parentesi vissuta nell’Ncd di Angelino Alfano.
La prima udienza del procedimento dinanzi al Tribunale delle misure di prevenzione di Trapani è previsto per il prossimo 13 luglio. Ma sicuramente si tratterà di una udienza prettamente interlocutoria e non è escluso che la Dda di Palermo si presenti in aula con nuove prove. Fino ad ora quelle a disposizione della difesa e dei giudici del Tribunale sono quelle tratte dalle sentenze dei due processi dove l’ex sottosegretario era imputato di concorso esterno in associazione mafiosa, pronunciate il 30 settembre 2013, in primo grado e quella di secondo grado, le cui motivazioni sono state depositate nel dicembre dell’anno scorso. Pronunciamenti identici nelle conclusioni, D’Alì ha ottenuto la prescrizione del reato sino al gennaio 1994 e l’assoluzione per il periodo successivo, sino al 2011.
La prescrizione pesa già particolarmente nel procedimento per le misure di prevenzione, ma l’assoluzione, solo per insufficienza di prove, contiene per la Dda di Palermo elementi che proverebbero i contatti costanti con l’organizzazione mafiosa da parte del senatore D’Alì. Emerge infatti la figura di un “politico a disposizione”. Non è cosa da poco, per esempio, l’ipotesi di accusa che gira sui contatti che D’Alì avrebbe avuto con l’imprenditore valdericino Tommaso “Masino” Coppola, condannato in via definitiva per essere stato il “regista” degli appalti pilotati e soprattutto degli appalti banditi dalla Provincia regionale di Trapani. Coppola fu intercettato in carcere mentre incaricava il nipote di prendere i contatti con l’entourage del senatore D’Alì per ricordare l’impegno che lo stesso senatore avrebbe assunto con lui a proposito delle forniture per i lavori al porto di Castellammare del Golfo.
Ma tra le carte a disposizione ci sono anche i rapporti investigativi della squadra Mobile di Trapani ai tempi in cui i poliziotti, diretti dall’odierno capo della Dia di Napoli Giuseppe Linares, indagavano sulla nuova cupola mafiosa trapanese, quella capeggiata dall’imprenditore di Paceco Francesco Pace. Pace è l’imprenditore che, intercettato, si scoprì essere bene informato sulle decisioni circa il trasferimento da Trapani, nel luglio del 2003, del prefetto Fulvio Sodano, decisione che davvero prese il Consiglio dei ministri, all’epoca in cui a presiederlo era Silvio Berlusconi e D’Alì ne faceva parte quale sottosegretario all’Interno.
Ma Pace veniva anche intercettato mentre parlava di una iniziativa legislativa che D’Alì avrebbe promesso, per rivedere le norme su sequestro e confisca di beni. Una circostanza emersa nel corso di un processo, dove un imputato, poi assolto, l’ex funzionario del Demanio Francesco Nasca confermò che lui si era preoccupato di scrivere una proposta di legge in tal senso da far avere al senatore D’Alì. D’Alì non presentò mai alcun provvedimento, ma l’intenzione della mafia era questa.
A far parte di quella cupola era anche l’imprenditore Nino Birrittella, che pochi mesi dopo il suo arresto, avvenuto assieme a quello del “padrino” Ciccio Pace, decise di collaborare con la giustizia. Birrittella ha pure ampiamente parlato dei rapporti tra Cosa nostra e D’Alì e sono state sempre ritenute vere ed attendibili le sue dichiarazioni, rese in diversi procedimenti, compresi i due processi di primo grado e appello dove era imputato l’ex sottosegretario.
La descrizione fatta del senatore D’Alì, non solo da Birrittella, è quella di un soggetto che avrebbe avuto negli anni intensi rapporti personali con esponenti di Cosa nostra, in alcuni casi addirittura comunanza di interessi patrimoniali, di “piccioli”, “soldi” insomma. D’altra parte quella del denaro è la parte forte per D’Alì, banchiere, deus ex machina della Banca Sicula, poi assorbita dalla Comit, oggetto di un rapporto investigativo firmato negli Anni ’90 dall’allora capo della Squadra Mobile Rino Germanà che, guarda caso, finì nell’elenco dei nemici che Riina in persona decise di eliminare nella stagione delle stragi del 1992. Germanà sfuggì miracolosamente ad un agguato a Mazara il 14 settembre del 1992, intanto in una delle filiali della Banca Sicula lavorava Salvatore Messina Denaro, il primogenito del padrino belicino.
Per i magistrati antimafia di Palermo il senatore D’Alì avrebbe contribuito alla strutturazione di Cosa nostra trapanese, passando dai rapporti con Messina Denaro a quelli con i trapanesi Vincenzo Virga e Francesco Pace. La storia di D’Alì per i pm si intreccia parecchio con quella di mafiosi di grande caratura: rapporti trentennali e che per la loro durata non possono essere ritenuti episodici o estemporanei. E questo per rispondere alla tesi della difesa che ha giustificato come D’Alì si sia ritrovato i Messina Denaro come propri campieri, per via del fatto che quei terreni, in contrada Zangara di Castelvetrano, li aveva ereditati “campieri” compresi. A “sua insaputa” si ritrovò insomma i mafiosi fin dentro casa.
E quei terreni sono quelli che D’Alì si ritrovò a dover vendere, per necessità di far cassa dopo un investimento finito male in Sardegna, terreni finiti nel possesso di Totò Riina attraverso il prestanome Francesco Geraci, il gioielliere di Castelvetrano, factotum di Matteo Messina Denaro, poi diventato pentito. “Sfurtunateddo”, D’Alì quei terreni risultò averli dapprima “promessi” con tanto di compromesso ad un altro mafioso di Partanna, Alfonso Passanante, poi anni dopo arrivò la vendita a Geraci, perché intanto Passanante era stato arrestato. A Geraci D’Alì in diverse tranche restituì il prezzo pattuito davanti al notaio di 300 milioni di lire.
La difesa del senatore ha sempre cercato di spiegare a suo modo cosa era accaduto, ma la tesi i giudici l’hanno sempre respinta. Gli assegni, trovati dai magistrati, hanno portato alla prescrizione per l’ex sottosegretario. E quei 300 milioni di lire secondo i giudici sono finiti nelle casse di Cosa nostra, impiegati negli affari illeciti, forse anche spesi per mettere riparo alle uscite necessarie a mettere su la stagione stragista di quegli anni.
Rilevante è anche la parte relativa alla gestione, finita per buona parte in mano alla mafia trapanese, dei lavori portuali a Trapani. Tra gli elementi messi in evidenza quelli dei rapporti stretti tra D’Alì e la famiglia degli imprenditori Morici, riusciti tra il 2005 e il 2011 ad aggiudicarsi buona parte degli appalti, da quelli per il porto a quelli per il recupero della litoranea nord della città, denunciati anche questi dalla Squadra Mobile e oggi sotto procedimento per misura di prevenzione.
Il capo della holding imprenditoriale, Francesco Morici, morto di recente, si scoprì essere parecchio accorto e mentre andavano avanti le procedure per l’aggiudicazione dei lavori, veniva pedinato dai poliziotti della Mobile trapanese e così si scoprì che l’imprenditore preferiva incontrare a Roma e non a Trapani il sottosegretario. D’Alì sarebbe stato il politico di riferimento della mafia trapanese, così veniva presentato all’interno della mafia palermitana e nei tempi in cui il nome di D’Alì era lontano dalle indagini. Per la Dda a disposizione dei Messina Denaro quanto del boss Virga, il capo mafia condannato all’ergastolo per la strage di Pizzolungo del 1985 e per l’omicidio di Mauro Rostagno, il giornalista ucciso a Trapani nel 1988 mentre si era troppo avvicinato a scoprire gli affari trapanesi tra mafia e massoneria.
L’atto di accusa contro D’Alì fa anche riferimento al contributo testimoniale arrivato dal sacerdote Ninni Treppiedi, il cui contributo si è sviluppato all’interno dei procedimenti contro lo stesso senatore e, al contrario di quanto accaduto col giudice di primo grado, nella sentenza di appello è stato valorizzato e ritenuto attendibile. Certi racconti fatti dal sacerdote e risalenti ad un periodo in cui tra i due c’era reciproca fiducia, hanno riscontrato episodi eclatanti, come quelli relativi alla Banca Sicula e a segreti rapporti che D’Alì anni addietro avrebbe avuto addirittura con la famiglia mafiosa degli Agate di Mazara del Vallo.
Insomma un atto di accusa pesante quello presentato ai giudici trapanesi. Intanto a fine gennaio a Roma si discuterà il ricorso per Cassazione presentato dal pg Nico Gozzo contro la sentenza di appello. Gozzo ha anche evidenziato le ultime rivelazioni sul conto del politico trapanese, che farebbe parte di una potente loggia massonica siciliana, la stessa che sarebbe frequentata dal latitante Messina Denaro. Massoneria che a Trapani farebbe da amalgama a tante cose, dalla politica agli affari pericolosi.
“Un senatore socialmente pericoloso”
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