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Casalesi a Modena, bische e due agenti penitenziari collusi arrestati

Di Giovanni Tizian il . Emilia-Romagna

A Modena, dopo gli otto arresti della settimana scorsa che hanno messo in luce una rete, composta da ‘ndranghetisti  e camorristi, dedita al traffico di cocaina, al cui vertice c’erano due calabresi proprietari di un bar tabaccheria e collegati al “locale” di ‘ndrangheta Farao- Marincola, è toccato ai casalesi finire nella trappola degli investigatori del nucleo della Polizia di Stato di Modena, coordinati dalla Dda bolognese. Un operazione denominata “Medusa” capace di scoperchiare un fitta rete di interessi e di intrecci di alto livello, connivenze importanti in grado di favorire il clan dei casalesi nei loro affari in terra emiliana. Cinque gli arrestati, tra cui due guardie penitenziarie del carcere di Modena, dove nella zona alta protezione sono rinchiusi alcuni esponenti dei casalesi,  e la donna di Nicola Schiavone, figlio del boss “Sandokan”, accusati tutti di corruzione, truffa e gioco d’azzardo, “con l’aggravante dell’aver consumato i delitti avvalendosi delle condizioni di partecipazione all’associazione camorristica, denominata clan dei casalesi”.  Era proprio Ioana Ancuta Gurlui, di origini rumene, fidanzata di Schiavone, a tenere i contatti con la “Casa madre”. Oltre ai cinque arrestati ci sono altri 5 indagati a piede libero, si tratta di persone direttamente riconducibili ai due circoli, ovvero i fornitori e gestori delle sale in questione. L’indagine è il proseguimento naturale di altre due operazioni, “Zeus” e “Minerva”, che a Modena hanno portato all’arresto tra il 2002 e il 2007 di quindici affiliati al clan. L’ultima indagine è nata dalla necessità di comprendere il perché molti camorristi detenuti all’interno del carcere di Modena riuscissero ad acquisire informazioni nonostante fossero ristretti in regime di alta sicurezza. Durante l’indagine sono state intercettate alcune telefonate tra camorristi dal tono minaccioso nei confronti del giudice di sorveglianza, Martinelli. Telefonate ad esempio in cui i mafiosi parlavano della necessità di fargliela pagare a quel giudice che non concedeva mai permessi. O ancora, particolarmente inquietante è la telefonata in cui un camorrista, riferendosi al giudice, dice a un altro: “ A Modena comandiamo noi, come comandiamo giù. Questo deve chinare la testa, deve chinarsi davanti a noi..”. Ebbene gli investigatori fin da subito, grazie a metodologie investigative, quali videoregistrazione e intercettazioni ambientali, hanno compreso la caratura criminale dei carcerati indagati, che si vantavano di essere affiliati alla consorteria mafiosa, e hanno scovato le talpe: due guardie penitenziarie individuate ad hoc dal clan, originarie del casertano. La loro funzione era quella di permettere ai mafiosi detenuti di incontrare persone non autorizzate dall’autorità e di fargli arrivare oggetti ed informazioni riservate che solitamente, per legge, in regime di alta sicurezza sarebbero vietate. In questo modo un flusso costante entrava e usciva dal carcere permettendo ai mafiosi di impartire ordini  e collaborare alla gestione degli affari nonostante la detenzione. Addirittura a volte erano le stesse guardie, dopo il proprio turno, a recapitare agli affiliati esterni messaggi criptati da parte dei detenuti. A questo punto delle indagini gli investigatori hanno scoperto qualcosa di ancora più grande, un affare da centinaia di migliaia di euro al mese:  i detenuti nel carcere di Modena erano direttamente collegati ad altri affiliati casalesi gestori di due circoli privati, uno a Castelfranco e uno a Carpi, che altro non erano se non bische clandestine. Ed è proprio cedendo alcune quote e le tessere di un “circolo” che sono stati ripagati i favori delle guardie penitenziarie.  Apparentemente due circoli privati, in realtà due classiche bische clandestine  dove si praticava il gioco d’azzardo tramite l’utilizzo di videopoker, il poker online e il tradizionale gioco della roulette. I videopoker di ultima generazione erano dotati di sistema “anti sbirro”, ovvero un meccanismo che trasformava la macchina in un normale video gioco se dopo sette secondi il giocatore non avesse toccato nessun tasto. I “circoli”, “Matrix II” e “Royal”, fatturavano precisamente 100 mila euro ogni due settimane, che confluivano totalmente nelle casse del clan. A conferma della vivace attività i libri mastri ritrovati nei circoli, in cui erano annotate le percentuali delle vincite. Quello delle bische è un grosso affare spartito tra casalesi e ‘ndranghetisti che oltre al traffico di cocaina, all’edilizia e all’usura non disdegnano i tavoli verdi. L’allarme usura- bische era stato lanciato qualche settimana fa proprio dal sostituto procuratore della Dda di Bologna, Lucia Musti, la quale aveva espressamente denunciato la presenza nel modenese dei casalesi soprattutto nel gioco d’azzardo, oltre che nell’edilizia(570 imprese edili i cui proprietari provengono da Casal di Principe), e nell’usura. Le fa eco Enzo Ciconte sottolineando pure la silenziosa presenza della ‘ndrangheta e di come casalesi e ‘ndrine, le organizzazioni maggiormente radicate nel modenese, “collaborano tra loro, il campo criminale è vasto, sono città più grandi dei paesi da cui provengono e hanno capito che è controproducente farsi la guerra. Si scambiano droga quando uno dei due rimane a secco, si scambiano informazioni. Non sono assolutamente in concorrenza”. Questa è Modena. Così è l’Emilia, oggi, crocevia di traffici mafiosi e meta prediletta dai casalesi per riciclare ingenti somme di denaro sporco. E’ tempo di aprire gli occhi e di svegliarsi dal torpore che permette ancora a qualcuno di minimizzare la mafia come fenomeno globalizzato. E’ arrivato il momento di prendere sul serio un fenomeno che non è più emergenza bensì patologia cronica del tessuto economico emiliano romagnolo, nazionale e mondiale.

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