Riina e Graviano, tra minacce e intercettazioni
Sono saliti nuovamente alla ribalta nelle ultime settimane i nomi di boss di Cosa nostra, spariti dai radar dell’informazione, perché affidati non solo alle patrie galere ma anche all’oblio che, spesso e colpevolmente, il nostro Paese riserva alla sua storia recente e più drammatica.
Totò Riina prima, Giuseppe Graviano poi sono tornati a riempire le pagine dei quotidiani e ad affacciarsi ancora dai teleschermi nelle case degli italiani: l’effetto è stato straniante, come quando si rivede dopo molti anni una persona che pensavamo fosse scomparsa del tutto dalla nostra vita. E anche se, solo a distanza di qualche giorno, tutto è sembrato ricomporsi per il sopraggiungere di altre emergenze, restano pesanti interrogativi sul rinnovato protagonismo di due leader della mafia stragista.
Riina, minacce e dignità
A fine maggio Totò Riina era apparso in videconferenza, nel corso dell’udienza davanti al Gip del Tribunale di Milano, chiamato a decidere se archiviare o meno il procedimento per minacce dello stesso boss nei confronti del presidente di Libera, don Luigi Ciotti.
Minacce captate nel corso di un’intercettazione ambientale nel carcere di Opera, dove Riina si trovava all’epoca dei fatti (settembre 2013). Durante l’ora d’aria, il boss, in compagnia di Alberto Lorusso, esponente di rilievo della Sacra Corona Unita, si era lasciato andare a commenti taglienti sulla situazione politica italiana, ma anche si era spinto ad individuare i bersagli della sua rabbia repressa, coprendoli di insulti e minacce: oltre al pm palermitano Nino Di Matteo, al quale augurava di “fare la fine del tonno”, nel mirino di Riina era finito proprio don Luigi Ciotti.
A dire del vecchio boss, il suo astio era dovuto ad un incontro in carcere, prima richiesto e poi mancato dal sacerdote, ma anche per l’attività promossa da Libera relativamente al riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie, vero tarlo per le organizzazioni criminali, ai quali vengono sottratte così le ricchezze accumulate.
Peccato che, al contrario fu invece il Riina, tramite Ninetta Bagarella a sollecitare don Ciotti perché visitasse il marito, salvo sentirsi rispondere che lo stesso incontro sarebbe stato possibile, soltanto all’interno di un percorso autorizzato e concordato con l’autorità giudiziaria.
Poi, a distanza di qualche giorno, il capo dei capi è finito ancora una volta sotto i riflettori nazionali e internazionali, in ragione di una sentenza della Corte di Cassazione di annullamento con rinvio di un’ordinanza del Tribunale di Bologna che a sua volta rigettava la richiesta, in ragione del peggioramento dello stato di salute di Riina, di differimento dell’esecuzione della pena o di detenzione domiciliare.
Attorno alla questione di una presunta dignità di fine vita, da assicurare in limine mortis anche al più incallito dei criminali, si sono scatenati articoli, comunicati, commenti di magistrati, esperti o presunti tali, di giornalisti antimafia o anti-antimafia, di forze politiche e di associazioni, polarizzando il dibattito in due compositi schieramenti.
Da un lato i “possibilisti”, che teorizzavano la superiorità dello Stato e del diritto nei confronti della mafia, superiorità che avrebbe consentito un gesto di clemenza nei confronti di un padrino ridotto ai minimi termini, in attesa di passare a miglior vita. Dall’altro gli “intransigenti”, che proprio a partire dalla vigente pericolosità del Riina, vista la sua permanenza alla guida di Cosa nostra, ricordavano come i primi a non avere una morte degna fossero state proprio le persone colpite dalla furia omicida delle cosche. Ovviamente in questo secondo schieramento, la parte predominante è stata giocata proprio dai familiari delle vittime di mafie, ma ha preso posizione in tale direzione anche l’ex generale Mario Mori, oggi alla sbarra per il processo sulla trattativa.
La questione della dignità della permanenza in carcere di Riina sarà affrontata dal Tribunale di Bologna, chiamato a motivare maggiormente nel dettaglio il rigetto delle richieste della difesa del capomafia, anche se insigni giuristi hanno dichiarato che la Cassazione anziché emettere una simile pronuncia si sarebbe dovuta limitare a dichiarare inammissibile il ricorso. Gli esiti della visita che la Commissione parlamentare antimafia ha svolto a Parma, qualche giorno fa, per sincerarsi del quadro della degenza/detenzione cui è sottoposto il Riina, dovrebbe fornire un ulteriore elemento a sostegno della permanenza del boss al regime di 41bis. Regime innanzitutto motivato dalle numerose dichiarazioni di magistrati – Roberti e Di Matteo in primis – che attestano come sia ancora oggi Riina il capo di Cosa nostra.
Quanto alle minacce contro don Ciotti, pochi giorni fa, il Gip di Milano ha accolto la richiesta d’archiviazione – cui si era opposta l’ufficio legale di Libera – ma con motivazioni assolutamente diverse da quelle prefigurate dalla Procura di Milano. Innanzitutto il Gip ha riconosciuto l’astio profondo di Riina verso Ciotti e ha certificato la circostanza dell’aggravante mafiosa (art. 7 legge n. 203/1991), che sancisce la perseguibilità d’ufficio e non su querela – peraltro mai presentata – del reato di minaccia non aggravato, così come era stato iscritto a registro dalla pubblica accusa.
Secondo il Gip, nonostante una “oggettiva idoneità intimidatoria” riscontrata nelle conversioni intercettate, Riina e Lorusso non potevano essere certi che la loro minaccia potesse arrivare a destinazione ed essere percepita come tale da don Ciotti, persino a prescindere dal fatto che i due sapessero di essere intercettati. Le loro furono minacce “prive di qualsivoglia potenziale rilevanza esterna, come tali non sussumibili nella previsione normativa di cui all’art. 612 c.p.”.
Abbiamo imparato che i provvedimenti della magistratura si rispettano anche quando non ti viene data ragione e non verremo meno neppure questa volta a tale principio, sebbene questa ordinanza del Gip, pur offrendo valide ragioni all’opposizione presentata da Libera, non sciolga la contraddizione tra la mancanza di una “qualsivoglia potenziale rilevanza esterna” della minaccia di Riina e il rafforzamento della tutela del sacerdote disposta dal Viminale, in seguito proprio alla pubblicazione delle minacce di Riina, ad un anno dalla loro registrazione. Un rafforzamento tuttora vigente.
Si potrebbe obiettare che siamo in presenza di due questioni diverse e di due amministrazioni dello Stato differenti. Certo, ma il dubbio resta, anche se ora siamo certi dell’odio di Riina verso il presidente di Libera e delle minacce lui rivolte, a prescindere dalla loro configurazione come reato.
Graviano, parla “madre natura”
Ultima apparizione in ordine di tempo, soltanto pochi giorni fa, è stata quella di Giuseppe Graviano, ovvero “madre natura” come Gaspare Spatuzza e gli altri soldati della cosca di Brancaccio erano soliti nominare il loro capo assoluto. Ancora una volta abbiamo conosciuto i pensieri del boss, soltanto perché è stato intercettato. Cambiata la location, ma non il contesto in cui è avvenuta l’intercettazione ambientale: non eravamo più a Opera, come era capitato a Riina, ma in un altro carcere, ad Ascoli Piceno. Graviano è stato messo sotto ascolto dagli uomini della Dia dal gennaio 2016 al marzo di quest’anno, mentre nell’ora d’aria colloquiava di umanità varia con il camorrista Umberto Adinolfi.
Il quadro che ne è uscito ha ancora una volta provocato grande rumore, anche se la maggior parte dei quotidiani e delle testate televisive non ha riservato alle rivelazioni apprese dalla viva voce di Graviano il “dovuto spazio”, per usare un eufemismo…
Graviano ha parlato con toni piccati del ruolo di Silvio Berlusconi nella stagione stragista di venticinque anni fa (“Berlusca mi ha chiesto questa cortesia…per questo è stata l’urgenza di…lui voleva scendere…”); ha ricordato il tradimento della propria fiducia da parte dello stesso ex presidente del Consiglio (“Ti ho portato benessere, 24 anni fa mi è successa una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi, per che cosa? Per i soldi, perché a te ti rimangono i soldi”); ha descritto i contorni del patto sancito con la trattativa Stato-mafia (“Ci sono state altre stragi, ma no che era la mafia, loro dicono che era la mafia. Allora il governo ha deciso di allentare il 41bis..”); ha rivelato gli scandalosi trattamenti di favore riservati in carcere a lui e al fratello, comprensivi finanche della possibilità di concepire i propri figli in cella con le rispettive mogli e non tramite l’inseminazione artificiale, come si era invece sempre sostenuto fin qui.
Graviano, trovato in possesso anche di un rudimentale coltello, nonostante il regime di carcere duro cui è sottoposto, in seguito è stato sentito dai magistrati palermitani, che puntavano ad avere chiarimenti circa il contenuto di quelle intercettazioni, ma si è trincerato dietro il proprio stato di salute, definendosi “distrutto” e in balia degli antidepressivi: “Quando sarò in condizione, sarò io stesso cercarvi, e a chiarire alcune cose che mi avete detto”.
Una promessa per prendere tempo o una minaccia per chi può intendere?
Insomma, contenuti esplosivi tanto da far balenare l’ipotesi di far riaprire le indagini in danno di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, come autorizzerebbe a pensare non solo l’acquisizione delle intercettazioni di Graviano agli atti del processo sulla trattativa in corso a Palermo, ma anche la trasmissione della stessa documentazione alla Procura della Repubblica di Caltanissetta e alla Procura nazionale antimafia, retta da Franco Roberti.
Ancora una volta la storia contemporanea del nostro Paese potrebbe essere riscritta, ma occorre andare avanti con i piedi di piombo, perché quel che deve essere chiaro è che procedendo di questo passo, ogni pubblicazione di intercettazioni corre il rischio di dare la stura ad ogni ragionamento, non solo a quello più pertinente, ma anche a quello meno legittimo, anche a quello più campato per aria.
Se da un lato ritorna cioè il refrain già visto della “giustizia ad orologeria”, dall’altro ci si dimentica del fatto che per venticinque anni c’è stata una magistratura che, per quanti errori possa aver commesso, non si è mai arrestata lungo la contorta strada che porta all’accertamento della verità. Prova ne sia l’iter processuale ancora in divenire che riguarda la strage di via D’Amelio, dopo la chiusura del Borsellino quater che prelude ad un nuovo procedimento.
Taci, il nemico ti ascolta..
Anche in quest’ultima vicenda delle nuove intercettazioni di Graviano, si rincorrono le interpretazioni più o meno azzeccate ed è il rischio principale che si corre soltanto quando ci si affida alla mera lettura di quanto è stato sbobinato, prendendolo come oro colato.
Non stiamo dicendo che le intercettazioni non devono essere pubblicate, ce ne guardiamo bene dal farlo: senza questi strumenti d’indagine oggi non sapremmo quello che abbiamo scoperto su alcune delle pagine più buie della nostra Repubblica. Stiamo solo mettendo in guardia lettori e cittadini – spesso le due categorie non coincidono, ahinoi! – circa la necessità di contestualizzare sempre la lettura di questi atti che vanno ricondotti a quello che sono: strumenti probatori di una verità che deve essere però perfezionata e consolidata con l’acquisizione di ulteriori elementi.
Oggi più che mai, vista l’assenza di collaboratori di giustizia di spessore – l’ultimo è stato Gaspare Spatuzza che, non a caso, ha contribuito a riscrivere la storia della strage di via D’Amelio – sono le intercettazioni a restituirci nella loro interezza il senso del pensiero mafioso. Una volta erano i collaboratori di giustizia come Tommaso Buscetta o Totuccio Contorno a restituire il senso delle cose di mafia con la loro testimonianza in prima persona. Oggi solo la presa diretta dei discorsi di boss come Riina e Graviano, a loro insaputa, è in grado di dare contributi fondamentali all’avvio di piste investigative finora inedite.
Resta sempre il dubbio che trattandosi d’intercettazioni disposte in contesti particolari, quali le carceri, altri fattori possano inquinare la genuinità delle dichiarazioni intercettate.
E non è necessario scomodare precedenti negativi, la cui esistenza per altro è sempre stata negata ufficialmente, come il cosiddetto Protocollo Farfalla, cioè il patto segreto stipulato anni fa tra i Servizi segreti e il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, perché le notizie provenienti dai detenuti al 41bis finissero a disposizione dei primi, senza che i magistrati competenti ne fossero messi al corrente.
Basterebbe pensare alle polemiche, anche recenti, sui compagni di passeggio durante l’ora d’aria tanto di Riina quanto di Graviano. Si sono trovati al posto giusto nel momento giusto oppure sono stati scelti e condotti ad assumere il loro ruolo di compagni dei boss dell’ala stragista della mafia? In quest’ultimo caso quale sarebbe il soggetto responsabile di tale scelta, pericolosa da maneggiare e a rischio di essere smontata in un’aula di tribunale, con l’accusa di aver inquinato le prove?
E, dubbio dei dubbi, siamo proprio sicuri che Riina e Graviano quando parlano con i loro compagni d’aria non sappiano di essere ascoltati da qualcun altro? E che sapendolo, non dicano quello che serve loro per mantenere la primazia dentro Cosa nostra e per conservare i patti stretti a suo tempo con altri?
Insomma, quando boss come Riina e Graviano parlano, coscienti o meno che siano di essere ascoltati, occorre sempre prestare grande attenzione alle loro parole. Poi però serve che le indagini le facciano gli organi competenti e occorre far depositare il polverone mediatico che si alza, il più delle volte con fini dilatori e depistanti, per fare delle analisi il più possibili pertinenti e utili.
Tanto più che a venticinque anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, il nostro Paese e i familiari delle vittime non possono accontentarsi di una nuova verità posticcia, buona per tirare avanti solo qualche anno, in attesa di un nuovo Spatuzza.
Minacce Riina a don Ciotti, archiviata indagine
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