Scu, fine diarchia Montedoro-Potenza
Diarchia, questo il nome dell’indagine condotta dai Carabinieri del Comando Provinciale di Lecce sotto la regia della Direzione Distrettuale Antimafia.
Il decreto di fermo, emesso dalla Procura della Repubblica, ha raggiunto 14 soggetti accusati a vario titolo di associazione mafiosa, tentato omicidio aggravato, associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, detenzione di armi, ricettazione e furto aggravato.
Al centro dell’attività investigativa, il clan capeggiato da Tommaso Montedoro egemone a Casarano e in altri comuni limitrofi come Ruffano e Supersano.
Questo sodalizio aveva anche un altro capo, Augustino Potenza, come emerge dalla relazione della Direzione Nazionale Antimafia 2016. Due capi, due Cesari del panorama criminale salentino. Proprio per questo i Carabinieri del Reparto Operativo e quelli del Nucleo Investigativo, diretti rispettivamente dal Colonnello Saverio Lombardi e dal Maggiore Paolo Nichilo, hanno dato il nome Diarchia all’operazione di polizia giudiziaria.
Dopo una lunga amicizia, rafforzata dalla condivisione di vicende giudiziarie e carcerarie, erano sorti contrasti tra il Potenza e il Montedoro per consistenti somme di denaro, prima promesse e poi disconosciute, che il secondo doveva nei confronti del primo. A tal proposito sono interessanti le dichiarazioni rese dalla moglie di Potenza il 27 ottobre 2016, alle ore 11.22, il giorno dopo l’omicidio del marito: «Il primo pensiero che ho avuto in mente è stato quello che mio marito avesse subito un torto da parte di qualcuno, nello specifico da Montedoro Tommaso. Tale pensiero nasceva dalla mia conoscenza, confidatami da mio marito, di un debito di una somma consistente di denaro da parte di Montedoro Tommaso nei suoi confronti. Non conosco la causa del debito. Tommaso e mio marito sono stati veri amici. Spesso mio marito lamentava il fatto che Montedoro non riconosceva più questo debito, tant’è che mio marito ricevette una lettera da Montedoro il quale esternava dispiacere circa il comportamento di mio marito che raccontava dell’episodio a persone di conoscenza comune. Ricordo, in particolare, una frase dove Montedoro diceva non ti ho rubato un centesimo. Quindi, di conseguenza, ufficializzava la disconoscenza del debito. Non c’è mai stato un confronto faccia a faccia tra mio marito e Montedoro Tommaso vuoi perché Montedoro tre anni fa fu arrestato e vuoi perché mio marito non si è mai avvicinato alla sua abitazione nei brevi periodi di permanenza a Casarano. Poiché conoscevo il carattere di mio marito, che potrei definire vendicativo in senso buono, non escludo che l’atto delittuoso sia stato posto in essere per timore di una sua ritorsione. Voglio precisare che mio marito, a seguito di questo episodio, mi proibiva di parlare con la famiglia di Montedoro e di salutarla».
Il ruolo del defunto Augustino Potenza sul territorio di Casarano era evidenziato dalle dichiarazioni di un imprenditore del luogo che, in data 24 novembre 2016, sottolineava come il Potenza, dopo una rapina gravissima subita dalla sua famiglia, lo tranquillizzava per quello che era successo dicendogli che avrebbe “potuto dormire tranquillo con le porte aperte”, aggiungendo che “stava facendo di tutto per mettere un po’ di ordine in quella città affidando a tutti dei compiti ben precisi”.
Le indagini iniziano il 26 ottobre 2016, quando viene assassinato Augustino Potenza. Alle 18.04, l’uomo è seduto all’interno della sua autovettura ferma nel parcheggio di un centro commerciale a Casarano. Qui è raggiunto da almeno 14 proiettili esplosi da un fucile mitragliatore Ak-47, più comunemente noto come kalashnikov.
Subito dopo l’omicidio, gli inquirenti appurano che i rapporti tra Potenza e Montedoro erano ormai tesi. Trascorso un mese, si verifica un altro grave fatto di sangue. La sera del 28 novembre 2016, verso le 19.55, viene teso un agguato a Luigi Spennato, uomo vicino al Potenza, mentre rientrava a casa a bordo della sua autovettura, proprio nei pressi della sua abitazione. Diverse le armi usate, come verificato dai Carabinieri nel corso del sopralluogo, durante il quale sono stati rinvenuti numerosi bossoli calibro 9 mm Luger e calibro 7,62×39 mm di varie marche. L’esame balistico ha consentito di accertare che sono state usate una pistola mitragliatrice STEN (bossoli calibro 9 mm) e due kalashnikov (bossoli calibro 7,62×39 mm). Il numero e il tipo di armi usate e la quantità di colpi esplosi (almeno 32) a breve distanza, fanno capire che gli autori del fatto delittuoso volevano la morte di Spennato che non si è verificata per puro caso. L’uomo, però, ha comunque subito lesioni permanenti (cecità e tetraplegia).
Fondamentali per le indagini, le dichiarazioni rilasciate ai Carabinieri della Stazione di Casarano dai familiari della vittima. Il padre Francesco, la madre e suo fratello Gianluca affermavano all’unisono che a sparare era stato Luca Del Genio.
Alle ore 23.30 del 28 novembre 2016, il fratello di Luigi Spennato dichiarava: «Sentivo che mia cognata stava urlando. Per questo motivo incominciavo a correre verso il cancello e notavo che lo stesso era completamente aperto e dalla parte esterna a circa un metro vi era la macchina di mio fratello con il motore spento… ho aperto lo sportello lato guida e vedevo mio fratello Luigi che era riverso sul suo fianco destro appoggiato sul sedile passeggero… Nel momento vedevo che era ferito in viso precisamente ad entrambi gli occhi e lo tiravo su per cercargli di parlare. In particolare gli dicevo: “Luigi, Luigi mi senti?” Inizialmente non mi rispondeva ma poi mi diceva: “Sì…sì…” visto che lui era capace di ascoltarmi gli chiedevo chi fosse stato a sparargli. Lui mi rispondeva subito: “Luca, Luca!”. Gli chiedevo quindi di specificarmi a chi si riferisse. Lui continuava dicendomi “Del Genio” mi ha risposto “con lui mi dovevo trovare”. Nel frattempo ero riuscito a trasportarlo fuori dall’autovettura aiutato da mio padre anche per favorire un immediato intervento degli operatori del 118, quando sarebbero intervenuti».
Dello stesso tenore le dichiarazioni del padre di Spennato, Francesco, rilasciate nella notte tra il 28 e il 29 novembre 2016: «Io lo chiamavo (riferito al figlio Luigi) e lui mi rispondeva solo il nome e cognome della persona che lo aveva sparato “Luca Del Genio” ripetendolo per due, tre volte. Mentre Debora (moglie di Luigi Spennato N.d.A.) era intenta a chiamare il 118, io e Gianluca (fratello di Luigi Spennato N.d.A.) lo abbiamo tirato fuori dalla macchina e mentre Gianluca era rimasto insieme al fratello Luigi io ho spostato la macchina… verso l’interno dell’abitazione… per poter uscire con la mia… per poter raggiungere, vicino alla Chiesa della Madonna della Campana, l’arrivo del 118». Francesco Spennato affermava che il figlio Luigi, ferito gravemente, diceva le testuali parole: «Lui è stato! Lui è stato! Luca! Luca Del Genio!». Interessanti anche le dichiarazioni della moglie di Luigi Spennato che riferiva del legame esistente un tempo tra suo marito, Tommaso Montedoro e Augustino Potenza. La donna sottolineava, però, che il rapporto con il Montedoro si era raffreddato mentre quello con il Potenza era rimasto ancora vivo. «Nelle settimane scorse ero anche andata a casa della moglie Elisa per fare le condoglianze e una visita», riferiva ai Carabinieri. E in merito ai rapporti tra suo marito e Augustino Potenza, puntualizzava: «In questo periodo ho visto mio marito un po’ pensieroso e turbato dopo l’omicidio di Augustino Potenza che conosceva e frequentava…proprio in questa settimana si era iscritto in palestra, precisamente all’Energym, proprio perché doveva scaricare questa tensione». Le fasi dell’agguato sono state anche registrate dalla microspia collocata all’interno dell’autovettura di Luigi Spennato dal G.I.C.O. della Guardia di Finanza, perché era in corso, contestualmente, un’altra indagine sul territorio di Casarano e comuni limitrofi. Gli investigatori ascoltavano così “il rumore agghiacciante e sinistro dell’esplosione dei colpi da arma da fuoco, le urla dei parenti e il pressante interrogare di Spennato Gianluca a Luigi ‘Chi è stato?’, ‘Luca è stato’, si sentiva indistintamente”. Tutto ciò viene dettagliatamente riportato nelle 74 pagine del decreto di fermo emesso e firmato dal Procuratore Capo Leonardo Leone De Castris e dai Sostituti Guglielmo Cataldi e Massimiliano Carducci.
I Carabinieri di Casarano, facendo leva sui primi riscontri investigativi, sottoponevano all’esame stub per la ricerca di residui derivanti dall’esplosione di armi da fuoco, Luca Del Genio e suo cugino Antonio Andrea Del Genio.
Gli accertamenti effettuati dal R.I.S. di Roma confermavano il possibile coinvolgimento degli stessi in un’azione di fuoco. La conferma di questi indizi avviene in seguito a un’imponente attività di intercettazione telefonica che consente di scoprire l’esistenza di un sistema di comunicazione chiuso tra i principali membri di un sodalizio capeggiato da Tommaso Montedoro, nonostante questi si trovasse agli arresti domiciliari in Liguria. Il Montedoro e i suoi sodali credevano erroneamente di aver preso le giuste precauzioni per impedire l’individuazione dei numeri identificativi delle SIM e dei cellulari da loro utilizzati nelle conversazioni riservate, perciò parlavano senza usare un linguaggio criptico, in un modo esplicito, facendo riferimento a cose e a persone facilmente individuabili. Così gli inquirenti, attraverso le intercettazioni potevano appurare che Tommaso Montedoro era il mandante del tentato omicidio di Luigi Spennato, mentre i cugini Luca e Antonio Andrea Del Genio, ne erano gli esecutori materiali. Emergeva, inoltre, l’esistenza di una vera e propria associazione di tipo mafioso capeggiata da Tommaso Montedoro, cui aderivano Luca Del Genio, Antonio Andrea Del Genio, Giuseppe Corrado, Cosimo Damiano Autunno, Ivan Caraccio, Marco Petracca e Lucio Sarcinella; l’appartenenza dei predetti ad una parallela organizzazione dedita al traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti e la commissione di alcuni reati fine posti in essere dalla stessa; il progetto di uccidere Ivan Caraccio perché ritenuto soggetto inaffidabile in quanto colpevole del mancato rispetto del vincolo di omertà; la vicinanza del gruppo mafioso con Marcello Nuzzo, detto Frankie, dipendente della Procura della Repubblica di Lecce.
Il Montedoro e i suoi sodali avevano capito che l’eliminazione del Potenza non era sufficiente per assicurarsi il predominio sul territorio, considerato il comportamento tenuto dallo Spennato, legatissimo a Potenza, tanto da radunare attorno a sé, dopo l’omicidio di quest’ultimo, in una raccolta fondi per le spese funerarie, numerosi soggetti. I due episodi di sangue servivano anche e soprattutto a manifestare una sovrabbondante disponibilità di armi idonea a determinare terrore e paura sul territorio. La classica forza intimidatoria di un’organizzazione mafiosa che crea assoggettamento e omertà al suo interno e tra la popolazione.
Per i PM titolari delle indagini “non è dirimente in relazione all’odierna contestazione di cui all’art. 416 bis c.p. accertare se la cellula capeggiata da Montedoro Tommaso faccia o meno parte dell’organizzazione mafiosa comunemente nota come Sacra Corona Unita e se costituisca uno dei tanti nodi del network in cui la stessa SCU è venuta man mano a conformarsi; è infatti possibile riconoscere la sussistenza della mafiosità nel gruppo oggetto d’indagine indipendentemente dalla sua compenetrazione all’interno della Sacra Corona Unita della quale evidentemente sfrutta sul territorio la condizione di assoggettamento esterno consolidatosi nel tempo proprio per effetto dell’operare della SCU”.
Indubbi e palesi sono comunque i collegamenti del Montedoro con la frangia della SCU capeggiata da Andrea Leo e Totò Rizzo, con la partecipazione di Gregorio Leo e Antonio Leo. Questi rapporti garantivano rispetto e considerazione anche nell’ambiente carcerario. A ciò si aggiunga che il collaboratore di giustizia Silvano Galati, nei verbali del 5 settembre 2005 e del 5 dicembre 2005, aveva riferito della formale adesione del Montedoro e di Giuseppe Corrado alla Sacra Corona Unita.
La principale attività del sodalizio era quella del traffico delle sostanze stupefacenti, soprattutto eroina e cocaina, vera fonte di reddito del gruppo che riusciva a movimentare diversi chilogrammi di droga alla settimana. I fornitori, solitamente, venivano pagati per metà importo alla consegna, con saldo a trenta giorni. In questo contesto, era molto importante l’asse Casarano-Lecce, lungo il quale operavano Luca Del Genio e Maurizio Provenzano, noto pregiudicato leccese che acquistava lo stupefacente dalla compagine mafiosa casaranese per distribuirlo sulla piazza di Lecce grazie ad una sua rete autonoma di spacciatori, tra cui emerge Domiria Marsano. Gli incontri tra Provenzano e Del Genio avvenivano presso un box seminterrato, programmati di volta in volta, senza alcun tipo di comunicazione telefonica preventiva. Il Provenzano, inoltre, gestiva autonomamente un traffico di stupefacenti con due albanesi: Sabin Braho e Eljos Fasku.
Gli incassi dell’attività di spaccio, esercitata dal gruppo ristretto composto da Tommaso Montedoro, Luca Del Genio, Damiano Cosimo Autunno e Giuseppe Corrado, venivano versati in una cassa comune per essere in seguito riciclati in attività imprenditoriali lecite. In questo ruolo si distinguevano Luca Del Genio e Marco Petracca, di fatto cassieri del gruppo. Il primo era titolare di un suolificio nella zona industriale di Casarano, il secondo si era ritagliato un ruolo importante nell’organizzazione mafiosa capeggiata da Tommaso Montedoro. Il Petracca è un insospettabile, un piccolo imprenditore di Casarano, titolare della ditta “P&P Salento” che gestisce un temporany stock. L’uomo, al pari di Luca Del Genio e Giuseppe Corrado, era autorizzato a tenere i contatti all’interno di un sistema di comunicazione dedicato, con il capoclan Montedoro che si trovava agli arresti domiciliari in Liguria. Era così diventato uno strumento necessario per la vita del gruppo. In una telefonata intercettata il 13 maggio 2017, il Montedoro informava il Petracca della vendita di un bar a Parabita e lo invitava a fare un sopralluogo per verificare l’efficienza degli attrezzi da lavoro presenti all’interno dell’esercizio commerciale, ribadendo il suo interesse finalizzato alla realizzazione di sale giochi per diversificare gli affari dell’organizzazione: «…vai a vederlo… se è buono e tiene… ed è almeno di tre metri lungo e che tiene tutto… lo prendo a prescindere, tanto mi serve per qualche sala altra, hai capito?…».
In una seconda telefonata, intercettata circa due ore dopo, i due parlavano della vendita di una motocicletta del Montedoro e dell’acquisto di capi di abbigliamento con il denaro dell’organizzazione al fine di rivenderli. In questo affare era coinvolto anche Luca Del Genio. Sempre il 13 maggio 2017, venivano nuovamente intercettati. Dalla telefonata emergeva che il Petracca si occupava, su commissione del Montedoro, dell’apertura di conti correnti intestati a terze persone.
“Particolarmente significativo era poi il ruolo di Petracca Marco nel contattare Nuzzo Marcello, dipendente della Procura della Repubblica, per apprendere notizie circa eventuali indagini aventi ad oggetto l’organizzazione criminosa capeggiata dal Montedoro e comunque ottenere favori mediante il posticipo dell’emissione di provvedimenti giudiziari. In definitiva è emerso il pieno coinvolgimento del Petracca nell’organizzazione mafiosa in quanto persona attraverso la quale il Montedoro e l’organizzazione tutta provvedevano a reinvestire i capitali illeciti e ad assumere informazioni sull’attività della Procura della Repubblica e quindi sulle investigazioni in corso nei confronti dello stesso gruppo mafioso preservando, possibilmente, le persone vicine all’organizzazione da eventuali provvedimenti sanzionatori”, scrivono i Pubblici Ministeri nel decreto di fermo.
Il Montedoro manifestava la volontà di reinvestire i proventi illeciti in aperture di sale giochi, molto più redditizie rispetto all’attività di spaccio di stupefacenti. Reato, quest’ultimo, che comporta rischi maggiori e che prevede condanne più severe in caso di arresto. Il capoclan diceva a Luca Del Genio di essere stato il promotore, da almeno quindici anni, di un intenso traffico di droga che gli aveva consentito di realizzare un vero e proprio “impero” economico.
In una conversazione telefonica del 13 maggio 2017, Giuseppe Corrado chiedeva al Montedoro di intervenire presso il referente di San Donaci affinché un ambulante di Francavilla Fontana non prendesse parte alla fiera estiva che si tiene a Ruffano in occasione della festa di San Rocco. Per la Procura “la vicenda consentiva di accertare come il gruppo fosse interessato ad un controllo del territorio di Ruffano e delle attività economiche che sullo stesso si svolgono”.
Giuseppe Corrado esponeva a Tommaso Montedoro un’altra questione, riguardante il suo territorio di competenza, ossia la richiesta di aiuto ricevuta dalla figlia di Pasquale Tanisi, detenuto all’ergastolo, impiegata presso una tabaccheria di Supersano. La ragazza era stata infastidita dalla moglie di Vito Cacciatore, facente parte come il Montedoro e il Tanisi del gruppo di persone vicine a Vito D’Emidio, che si stava muovendo per le vicende giudiziarie del marito. Giuseppe Corrado affermava di aver tranquillizzato la ragazza dicendole: «Ora domando a lui», facendo capire che della vicenda si sarebbe interessato direttamente il Montedoro.
Da sottolineare l’atteggiamento di assoluta obbedienza e dedizione del Corrado nei confronti del Montedoro: «Quello che mi dici tu facciamo», diceva il sodale al suo capo, dimostrando completa sottomissione. E l’interesse verso i territori su cui l’organizzazione svolgeva la propria attività, compresa Taurisano, dove era attivo, presumibilmente, Rosario Sabato, visto il riferimento, nel corso della telefonata, a tal maghimbu, soprannome del Sabato già emerso nel corso dell’operazione di polizia giudiziaria denominata Tam Tam.
Nella parte finale della conversazione, il Corrado ritornava sulla questione della presenza del commerciante di Francavilla in occasione della fiera di San Rocco a Ruffano: «A Francavilla che non si presenti perché gli stand li dobbiamo mettere noi…paesani!». Il Montedoro, allora, invitava il Corrado a recarsi a Francavilla Fontana per incontrare Gaetano Leo, noto pregiudicato, referente sul territorio della Sacra Corona Unita o il figlio.
La penetrazione da parte degli investigatori nel sistema chiuso di comunicazione che teneva in contatto il Montedoro con i suoi sodali, consentiva di intercettare conversazioni del tutto esplicite degli stessi, riguardanti non solo il traffico di sostanze stupefacenti e le altre iniziative delittuose e non dell’associazione, ma anche il progetto di omicidio di Ivan Caraccio, “sodale colpevole non solo di essersi arretrato nel pagamento delle forniture di stupefacente ma anche e soprattutto di parlare molto, di essere dedito al consumo di alcool e di stupefacenti e quindi violare il vincolo di omertà tipico dell’organizzazione mafiosa. D’altronde, i particolari timori del gruppo circa eventuali propalazioni del Caraccio sino a deciderne la morte erano sintomatici della conoscenza del Caraccio degli affari dell’organizzazione fornendo in tal modo indizio dell’appartenenza dello stesso all’organizzazione mafiosa stessa e a quella parallela, destinata al traffico e allo spaccio di stupefacenti.”.
Il Caraccio, stretto collaboratore di Antonio Andrea Del Genio, era attivo soprattutto nello spaccio di “piazza”. La sua eliminazione, con il placet del capo Tommaso Montedoro, doveva avvenire con il metodo della lupara bianca, al fine di evitare ulteriore allarme sociale e per non attirare l’attenzione delle forze dell’ordine, così come si era verificato in occasione del tentato omicidio di Luigi Spennato e dell’omicidio di Augustino Potenza.
Alla luce di questi riscontri, i Carabinieri del Nucleo Investigativo, insieme a quelli di Casarano, perquisivano l’abitazione di Ivan Caraccio che, trovato in possesso di cocaina, veniva arrestato e condotto presso la Casa Circondariale di Lecce.
L’arresto si rivelava provvidenziale perché salvava il Caraccio da morte sicura e suscitava, contemporaneamente, agitazione tra gli associati all’organizzazione criminale.
Dalla conversazione del 13 maggio 2017 emergeva l’ambizione del clan di allargare il suo raggio d’azione. Infatti, Tommaso Montedoro parlava di rapine da eseguire in una località vicina al luogo dove si trovava agli arresti domiciliari, ossia Vezzano Ligure, in provincia di Spezia. A tal fine, chiedeva a Lucio Sarcinella di raggiungerlo sul posto per dargli supporto. Gli episodi criminosi in fase di progettazione erano una rapina ad un soggetto incaricato della raccolta dei soldi incassati dalle slot machine e un furto presso un caveau ubicato in una regione limitrofa rispetto alla Liguria. Dal tenore della conversazione veniva fuori chiaramente il carisma di Tommaso Montedoro che, per il buon esito delle rapine, si impegnava a partecipare in prima persona alle stesse: «Vado casomai sbagliano… casomai vanno là si impaurano e se ne scappano… perché questi li vedo frettolosi… casomai arrivano là dentro vedono il problema e se ne vanno…».
Per la commissione del furto al caveau, Montedoro invitava Luca Del Genio a contattare Salvatore Crusafio, indicato come “quello del paese del vecchiareddu”, per la fornitura di uno jammer.
In data 17 maggio 2017, Luca Del Genio riferiva telefonicamente a Montedoro di aver contattato Crusafio per chiedergli la disponibilità all’uso del dissuasore di frequenze, il cosiddetto jammer. Sempre nel corso della stessa giornata, in una successiva conversazione telefonica, Tommaso Montedoro stabiliva che l’assalto al caveau doveva essere effettuato il 30 maggio 2017. Occorreva fare un sopralluogo e pertanto ordinava a Luca Del Genio di mandare in Liguria il sodale Lucio Sarcinella insieme a un altro soggetto indicato con lo pseudonimo il grosso. Nelle telefonate del 20 maggio 2017 il Montedoro informava Luca Del Genio di aver incontrato Lucio Sarcinella insieme ad un altro soggetto e nella circostanza il Montedoro si accorgeva della presenza di appartenenti alle Forze di Polizia.
Il blitz dei Carabinieri che hanno eseguito il decreto di fermo ha fatto saltare i piani dell’ambizioso clan.
Nel corso delle indagini è emersa la figura di Lucio Sarcinella che, dopo essere passato dal gruppo facente capo ad Augustino Potenza a quello riconducibile a Tommaso Montedoro, dimostra, fra l’altro, la sua particolare propensione alla commissione di reati contro il patrimonio, portati a termine con azioni anche clamorosamente violente ai danni di istituti di credito e con l’uso di armi di cui aveva ampia disponibilità. Gli investigatori hanno appurato che Sarcinella, nell’ambito delle sue condotte delittuose, aveva frequenti contatti con Luigi Calabrese e Salvatore Carmelo Crusafio. Per questo motivo, i tre venivano contestualmente sottoposti a perquisizione domiciliare che consentiva di ritrovare parte delle armi che erano nella disponibilità del gruppo, nascoste in quel momento da Calabrese che veniva, quindi, arrestato in flagranza di reato.
I contatti tra Sarcinella e Calabrese hanno consentito di documentare la disponibilità di armi da parte del gruppo, utilizzate per perpetrare reati contro il patrimonio.
Lucio Sarcinella, Salvatore Carmelo Crusafio ed Eros Fasano continuavano nelle loro condotte illecite e si rendevano artefici, il 18 marzo 2017, di una spaccata presso la filiale della Banca Popolare Pugliese di Tuglie dove riuscivano ad impossessarsi della somma di 34mila euro e tentavano un’analoga azione delittuosa a Matino, il 27 aprile scorso, presso la postazione bancomat del medesimo istituto di credito.
Durante le operazioni di fermo, sono stati sequestrati oltre 40.000 euro in contanti, tutti in tagli di 50, 100 e 200 euro, e materiale di rilievo per le indagini.
Il clan Montedoro è “una pericolosissima cellula mafiosa capeggiata da Tommaso Montedoro che, con l’esercizio sistematico della violenza ed avvalendosi della consequenziale forza intimidatrice ha seminato e intende seminare terrore e morte nella città di Casarano e nei paesi viciniori”, scrivono i Magistrati dell’Antimafia nel decreto di fermo.
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