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Enzo Palmesano, storie di impegno civile
e di «industrializzazione mafiosa»

Di Stefano Fantino il . Campania, Dai territori, Interviste e persone

Da anni Enzo Palmesano, giornalista di Pignataro Maggiore, si spende per fare informazione sul suo territorio. Anche dopo che le pressioni camorriste lo hanno strappato dalle redazioni la sua penna si fa sentire, perchè denunciare, informare sono i fondamenti del giornalismo, al di là della firma in calce agli articoli. Non tace nemmeno in questi giorni quando un vile tentativo di incendiare la sua auto ha rinnovato in Enzo i ricordi di anni passati a subire le intimidazioni da parte dei clan. Ma la perseveranza non difetta a Palmesano, al quale recentemente anche magistrati e carabinieri hanno pubblicamente indirizzato i complimenti per l’accurato lavoro svolto. Anche noi dunque, accendiamo una luce sulla realtà dell’agro Caleno intervistando il giornalista pignatarese.

Enzo Palmesano, il pm Giovanni Conzo, durante la conferenza stampa
che ha seguito l’arresto di esponenti dei clan Ligato-Lubrano, ha espresso
apprezzamento per il lavoro che negli anni ha portato avanti come giornalista.
Questa notte i clan sono tornati a farsi sentire, due fatti collegati? 

 

Per tutto il 24 febbraio si sono messe in funzione contro di me le
batterie giornalistiche e politiche, essendo io reo di non voler stare
in silenzio di fronte allo strapotere politico-mafioso della cosca Lubrano-Ligato,
nelle ore precedenti colpita dal blitz della Direzione distrettuale
antimafia e dei carabinieri. Passata la mezzanotte e cominciato il 25
febbraio, sono entrate in azione gli apparati camorristico-mafiosi:
alcuni vigliacchi hanno cosparso di benzina la mia autovettura e non
hanno potuto appiccare il fuoco solo perché io e i miei familiari abbiamo
dato prontamente l’allarme, mettendoli in fuga.  Ritengo 
le cose collegate, dunque, e penso che finchè non si indagherà su
referenti e  protettori politici della camorra sarò in costante
pericolo perché padroni del potere e padrini mafiosi non sono riusciti
altrimenti a mettermi a tacere con le pressioni, le querele, le minacce
e le ritorsioni professionali. 

Cosa emergeva dalla conferenza stampa di lunedì tanto da rendere
utile fare il suo nome? È cosa più unica che rara vedere un giornalista
citato così apertamente… 

Innazitutto voglio congratularmi con la magistratura e i carabinieri,
a cominciare dai militari della Stazione di Pignataro Maggiore, con
il comandante maresciallo Antonio di Siena e il vicecomandante maresciallo
Raffaele Gallo per il grande lavoro svolto. Passando in maniera repentina
alla conferenza di lunedì si tratta di analizzare le motivazioni per
cui il colonnello Burgio, il titolare dell’inchiesta dottor Conzo e
il dottor Roberti della Dda abbiano ritenuto opportuno citare la mia
vicenda professionale. Ha ragione nel dire che è una cosa che succede
di rado. Il mio nome è stato fatto per sottolineare i molti articoli
passati che avevano denunciato questi avvenimenti che ora sono stati
oggetto di indagine e hanno consentito di effettuare questi fermi. È
stato dato rilievo al mio impegno e alla volontà, anche quando mi furono
negati spazi editoriali, di far sentire la mia voce e portare avanti
il mio impegno tramite esposti e denunce alle autorità competenti.
Le mie passate inchieste sono state suffragate dall’azione giudiziaria
che ne ha dimostrato la veridicità. 

Citarla per accendere un faro sulla vostra realtà dunque, non per
esporla… 

La volontà di fare il mio nome non era sicuramente quella di volermi
esporre, quanto quella di legittimare il mio lavoro passato e accendere
un riflettore su questo territorio. Penso la magistratura abbia agito
correttamente e iniziato a far luce sulla situazione di questo angolo
del casertano. 
 

Entrando nel merito dell’inchiesta giudiziaria, cosa ha dimostrato
secondo lei questa indagine focalizzata su Pignataro Maggiore?

Penso che, aldilà, del riferimento alla mia vicenda personale le
parole spese da Conzo durante la conferenza stampa di lunedì siano
riuscite a spiegare davvero cosa emerge, di grande e inquietante, da
questa indagine. Il dottor Conzo ha spiegato, molto semplicemente, cosa
è Pignataro Maggiore. Un paese di mafia capace di adottare la tecnica
della immersione per non farsi notare e agire indisturbata. Bisogna
pur sempre tenere presente che si tratta della testa di ponte per l’ingresso
della mafia in Campania. Tramite i Nuvoletta  vengono mutuati i
codici e i comportamenti dei siciliani e da loro impareranno i Casalesi.
Un processo fondamentale di «industrializzazione mafiosa della criminalità».
Ritengo che sia importante il fatto che siano emerse queste cose in
una indagine. 

Una presenza importante allora, quella dei siciliani, che ha portato
a questo processo di “mafizzazione” fondamentale per la criminalità
campana? 

Assolutamente si. Io già da tempo scrissi della presenza, ora confermata,
di Riina a Pignataro Maggiore come anche di quella di Luciano Liggio,
arrestato dalla Guardia di Finanza a Milano ma avvistato più volte
in giro per contrada Arianova (sempre nella zona di Pignataro ndi) 
in calesse. E i terreni pignataresi riconducibili a Liggio confermano
queste vicende come pure la presenza di Riina al matrimonio di Gaetano
Lubrano, uno dei mandanti dell’omicidio Siani.  

Tornando alla conferenza stampa di lunedì, è da sottolineare come
lei rientri direttamente nell’inchiesta in quanto l’azione di affiiliati
al clan si era diretta contro la sua persona. Dalla ordinanza di custodia
cautelare, ad esempio, emerge una inquietante azione per delegittimare
il suo lavoro e allontanarla dal suo impiego, puo raccontarci qualcosa
a riguardo?  

Esattamente, grazie all’inchiesta dei carabinieri e della Direzione
distrettuale antimafia, sono emerse una parte delle pressioni – quelle
camorristiche della famiglia Lubrano, mentre attendo ulteriori indagini
sul livello politico e imprenditoriale – affinché il ‘Corriere
di Caserta’ ponesse fine alla mia scomoda collaborazione. Il tutto
tramite le minacce del boss Vincenzo Lubrano e delle pressioni operate
da un giornalista, Francesco Cascella.  In alcune intercettazioni
riguardanti il boss Vincenzo Lubrano, poi scomparso nel 2007, si fa
riferimento alla sua volontà di togliersi “dai piedi” per la seconda
volta un giornalista che dava fastidio, come all’epoca accadde con Giancarlo
Siani. Minacce che risalgono al 2003, sono dunque sei anni che io e
la mia famiglia viviamo questa situazione di pericolo. 

Nel piccolo comune di Pignataro, poco più di seimila anime, purtroppo
la pratica di minacciare e delegittimare i giornalisti è assai diffusa,
vero? 

Gli attacchi ai giornalisti non si risparmiano in queste terre. Sono
almeno tre i giornalisti pignataresi, escluso il sottoscritto, che hanno
subito minacce e condizionamenti. Sono Carlo Pascarella, Davide De Stavola
e Salvatore Minieri. Il 31 dicembre 2007 nell’ambito di una vasta opera
di minacce esplosero quasi contemporaneamente due bombe carta. Una presso
il panificio della fidanzata di un carabiniere e la seconda presso il
negozio della sorella di Carlo Pascarella. Subito si parlò di racket
ma era evidente l’intimidazione per altri motivi. Per mettere paura
a Pascarella soprattutto. Io già ero stato allontanato e il giovane
Davide De Stavola aveva già ritrovato per due volte dei pesci sulla
sua vettura. Rimaneva da sedare solo la voglia di informare di Salvatore
Minieri, l’unico ancora in pista, con De Stavola costretto a scrivere
poco e nulla presso la sua testata. Nel gennaio del 2008 un attentato
notturno cercava di completare l’opera di intimidazione. Alcuni colpi
diretti verso la finestra di casa Minieri si fermarono sulla cancellata.
Salvatore,  cacciato dal suo quotidiano ora è addirittura emigrato
in Molise dove collabora con una realtà della provincia di Isernia.
Quattro casi inspiegabili se non all’interno di una strategia mafiosa. 
 

E nella stessa ordinanza di lunedì si parla anche della volontà
di far allontanare suo figlio da un posto di lavoro, un attacco diretto
anche alla sua famiglia… 

Negli interrogatori dell’8 ottobre e del 12 novembre 2007 
il collaboratore di giustizia Giuseppe Pettrone, le cui dichiarazioni
sono state valorizzate da riscontri oggettivi, rivelò ai  magistrati
della Dda di Napoli che «Pietro Ligato per vendetta se la prese anche
con il figlio del giornalista Enzo Palmesano, Massimiliano Palmesano,
che nel 2005 lavorava presso un’impresa di costruzioni per pagarsi
le ferie. Io e Pietro Ligato – ha detto ancora il collaboratore di
giustizia Giuseppe Pettrone – ci recammo dal figlio del titolare dell’impresa
e gli ordinammo di licenziarlo. Subito il ragazzo fu licenziato, per
rispetto ai Ligato». Pettrone ha anche confermato che Pietro Ligato
mi spedì un plico con un proiettile e minacce di morte dall’ufficio
postale di Vitulazio: «Da anni il giornalista Enzo Palmesano scriveva
articoli contro la famiglia Ligato dicendo che i Ligato erano mafiosi
e denunciandone a chiare lettere le azioni criminose». 

L’inchiesta si rifa a vicende passate, ora le cose come stanno? 

L’inchiesta, molto importante, ha indagato avvenimenti di qualche
anno fa ma non ha ancora fatto luce sui legami politici e imprenditoriali
sottesi alle vicende pignataresi. Un intreccio economia, politica e
camorra davvero stretto. 

Dopo il tentativo di attentato della scorsa notte Luigi Ciotti è
venuto a trovarla, come ha accolto la sua visita? 

Mi ha colpito molto la visita di Luigi Ciotti. Anche la mia famiglia
si è commossa parecchio. É stato bello conoscere una persona carismatica
che dal vivo non delude, una persona vera per la quale ho grande stima.
Stima ribadita quando ho denunciato il tentativo di attentato, qualificandomi
come collaboratore di Libera Informazione.  Mi è piaciuto incontrarlo
e sentire una grande sensibilità e sintonia.

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