Ecoreati: ipocrisia e demagogia
Fare leggi confuse con precetti penali generici e indeterminati può servire per larghe intese politiche che soddisfano maggioranza, opposizione e Confindustria, ma è inaccettabile fare del trionfalismo scaricando sulla Cassazione il compito di renderle comprensibili ed accettabili.
Credo sia giunto il momento di affrontare con decisione la problematica relativa alla qualità delle leggi di tutela ambientale.
Spiace doverlo dire ma dagli anni ’70 (quando è comparsa la prima normativa di tutela dell’ambiente) ad oggi, con qualche piccola parentesi, la qualità delle nostre leggi ambientali è costantemente peggiorata.
Non è questa la sede per una compiuta disamina[1], ma basta leggere il Testo unico ambientale (D. Lgs. 152/06) nella versione attuale per verificare immediatamente questa semplice verità: prescindiamo pure dalle grottesche vicende delle terre e rocce da scavo o del Sistri (Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti), lo dimostra già il fatto stesso che oggi, a causa della pessima fattura iniziale e delle numerosissime aggiunte e modifiche (quasi sempre peggiorative) successive, è pieno di articoli e commi bis, ter ecc., a volte lunghi pagine e pagine che ne rendono difficile non solo la comprensione, ma anche la semplice lettura sistematica. Oltre che − ed è la cosa più importante − la loro applicazione.
Basta leggere il delirio dell’art. 242 sul tema di vitale importanza delle bonifiche, per capire che esso prevede, in caso di un evento rilevante di inquinamento, una procedura burocratica talmente farraginosa e complessa, piena di notifiche e di conferenze di servizi, da risultare esattamente il contrario di quella che sarebbe necessaria; tanto più che si basa essenzialmente sulla buona volontà dell’inquinatore[2]. E tanto più che, alla fine, se si bonifica si va esenti da pena[3].
Peraltro, spesso modifiche o integrazioni della disciplina in esso contenuta sono presenti in leggi diverse, il cui titolo sembra non avere nulla a che vedere con la tutela dell’ambiente e che quasi sempre fioriscono in piena estate o sotto le festività principali: l’ultimo esempio, tra i tanti, riguarda gli abiti usati ed è costituito dall’art. 14 della legge 19 agosto 2016, n. 166, in tema di Disposizioni concernenti la donazione e la distribuzione di prodotti alimentari e farmaceutici a fini di solidarietà sociale e per la limitazione degli sprechi; ma ancora più significativo è l’art. 40 della decreto Salva Italia (legge 22 dicembre 2011, n. 214: Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici) che elimina (o, comunque attenua) gli obblighi di legge per i rifiuti pericolosi e a rischio infettivo prodotti dalle attività di estetista, acconciatore, trucco permanente e semipermanente, tatuaggio, piercing, agopuntura, podologo, callista, manicure, pedicure; problema evidentemente ritenuto dal governo Monti di urgenza nazionale.
Tanto più che spesso si enuncia una regola ma poi si vanifica la regola con numerose eccezioni, a volte collocate in altre leggi, altre parti o altri articoli.
Un solo esempio: si legga l’art. 101 che si occupa della questione fondamentale relativa ai criteri generali della disciplina degli scarichi. Ebbene, al comma 1, si enuncia la regola («Tutti gli scarichi sono disciplinati in funzione del rispetto degli obiettivi di qualità dei corpi idrici e devono, comunque, rispettare i valori limite di emissione previsti nell’Allegato 5 alla parte terza del presente decreto»), al comma 2, si dice che «ai fini del comma 1», le Regioni possono stabilire limiti meno restrittivi per buona parte degli inquinanti; e al comma 10 si arriva all’apoteosi che, con accordo di programma, si possono stabilire «limiti agli scarichi in deroga alla disciplina generale».
Ma non basta, perchè, se si tratta di scarico in pubblica fognatura, «ferma restando l’inderogabilità dei valori-limite di emissione di cui alla tabella 3/A dell’Allegato 5 alla parte terza del presente decreto e, limitatamente ai parametri di cui alla nota 2 della tabella 5 del medesimo allegato 5, alla tabella 3 gli scarichi di acque reflue industriali che recapitano in reti fognarie sono sottoposti alle norme tecniche, alle prescrizioni regolamentari ed ai valori-limite adottati dall’Autorità d’ambito competente in base alla caratteristiche dell’impianto ed in modo che sia assicurata la tutela del corpo idrico ricettore nonché il rispetto della disciplina degli scarichi di acque reflue urbane definita ai sensi dell’articolo 101, commi 1 e 2» (art. 107, comma 1). Formulazione già di per sé incomprensibile specie per un non addetto ai lavori, ma che sembra comunque parlare di «limiti inderogabili» della tabella 3, ma rinvia − si noti bene alla Nota 2 della tabella 5 dell’Allegato 5, secondo cui «purché sia garantito che lo scarico finale della fognatura rispetti i limiti di tabella 3, o quelli stabiliti dalle regioni, l’ente gestore può stabilire, per i parametri della tabella 5, ad eccezione di quelli indicati sotto i numeri 2, 4, 5, 7, 14, 15, 16, e 17, limiti di accettabilità i cui valori di concentrazione superano quello indicato in tabella 3».
Si aggiunga, infine, che molto spesso la legge rinvia, per l’applicazione, a decreti e regolamenti amministrativi che, altrettanto spesso, non vengono emanati ovvero sono emanati con contenuto discordante dalla legge. E, come se non bastasse, ogni tanto il Ministero dell’ambiente se ne esce con circolari interpretative dirette quasi sempre a vanificare gli obblighi di legge.
Uno degli esempi più recenti ed emblematici è costituito dalla Nota 1 luglio 2016, prot. n. 10045: Disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto-Applicazione dell’art. 184-ter D. Lgs 152/06 ove il Ministero, invece di emettere, anche se con un ritardo di 6 anni, i decreti applicativi sull’E.O.W. previsti dall’art. 184-ter, comma 2, D. Lgs 152/06, fornisce una sua personale interpretazione secondo cui, in contrasto con la legge, spetta alle Regioni decidere, caso per caso, sulla fine-rifiuto[4].
Da ultimo, basta citare il decreto 13 ottobre 2016, n. 264 (Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti) ove il Ministero, arrogandosi il diritto alla interpretazione delle leggi che spetta al magistrato, indica quali sono, a suo giudizio, le prove necessarie per dimostrare che un residuo è un sottoprodotto e non un rifiuto.
Ed è superfluo sottolineare che, in sede penale, queste “interpretazioni”, se pure, ovviamente, non vincolano la magistratura, sono tuttavia rilevanti ai fini dell’elemento soggettivo.
Arriviamo, così, all’ultimo atto di questo inquinamento da leggi, la famosa legge 22 maggio 2015, n. 68 che reca «disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente» (c.d. “ecoreati”).
Dico subito, a scanso equivoci, che il primo, vero pregio di questa legge è la sua esistenza: dopo 25 anni, infatti, di tentativi infruttuosi, si è riusciti finalmente ad inserire nel codice penale i delitti contro l’ambiente. È un risultato storico e poco conta che due di essi (traffico illecito e combustione illecita di rifiuti) siano rimasti nel D. Lgs. 152/06.
In proposito, va anche subito evidenziato che questa legge è stata approvata a larghissima maggioranza, con il contributo dell’opposizione (in primis, i 5 Stelle), sotto lo sguardo benevolo di Confindustria.
Il che può sembrare un fatto positivo ma, in realtà, ha comportato un prezzo elevato in termini di compromessi politici. Tanto per fare un esempio, quando il Senato, nella penultima lettura aveva introdotto il sacrosanto divieto di airgun (metodo utilizzato per le prospezioni petrolifere con effetti micidiali sulla vita del mare ed i suoi organismi) ci fu una levata di scudi della destra e della Confindustria di settore, per cui la maggioranza accettò di eliminarlo pur di far approvare la legge.
E lo stesso avvenne per tutti i tentativi di emendare il testo nei suoi aspetti più criticabili.
Sia chiaro, queste constatazioni non vogliono essere una critica generalizzata verso la classe politica ma, appunto, semplici constatazioni. Di certo, è facile criticare a posteriori dal di fuori quando la scelta è fra non far passare una legge buona o far passare una legge, diciamo così, con qualche punto oscuro e qualche criticità. È stata scelta questa seconda strada e occorre prenderne atto, senza inutili e facili recriminazioni.
Ma, detto questo, è il seguito che, a mio sommesso avviso, è inaccettabile. Perchè sia a livello politico ma anche, in parte, a livello di dottrina giuridica (specie quella legata a qualche carro politico) è partita la corsa all’autoincensamento rimuovendo psicologicamente le criticità (notevoli) della nuova legge e bollando con insulti più o meno velati chi, invece, ne parlava.
Un esempio tra tutti. Aggiungere l’avverbio «abusivamente» nella fattispecie del disastro ambientale è un non senso giuridico perchè non può esistere un disastro ambientale abusivo così come non può esistere un omicidio abusivo. E questo lo ha affermato la migliore dottrina, sulla scia del primo commento dell’Ufficio del massimario della cassazione[5]. Ma, a livello politico, quando è emersa questa critica vi è stata una reazione definibile, quanto meno, come scomposta contro chi voleva sminuire la grande vittoria ottenuta con la nuova legge. E sullo stesso piano si sono poste addirittura alcune associazioni ambientaliste, che avevano evidenziato giustamente ai loro iscritti l’importanza dell’approvazione della nuova legge ma non volevano riconoscere, nel contempo, che si erano pagati alcuni prezzi cui si sarebbe dovuto rimediare.
Credo, a questo punto, che il giudizio più equilibrato, serio e corretto sulla nuova legge emerga dalla relazione sulla sua applicazione per il primo anno effettuato dalla citata Commissione ecomafia su dati raccolti presso gli uffici giudiziari italiani[6]. Ebbene, a livello statistico, i nuovi delitti risultano contestati in 74 casi (47 per inquinamento ambientale, 5 per disastro ambientale, 6 per ipotesi colpose, 3 per traffico di materiale ad alta radioattività e 6 per impedimento del controllo) di cui almeno 26 (circa un terzo) sono state rubricati contro ignoti. A livello giurisprudenziale, nonostante per questi delitti sia normale procedere con provvedimenti cautelari, è riscontrabile una sola sentenza della Cassazione (appunto, su provvedimento cautelare).
Nell’ordine, le maggiori criticità riscontrate dagli uffici giudiziari per l’applicazione dei nuovi delitti[7] consistono nella interpretazione di locuzioni quali «compromissione o deterioramento significativi e misurabili» (delitto di inquinamento ambientale), «abusivamente» (delitti di inquinamento e disastro ambientale), «porzioni estese o significative di suolo o sottosuolo» (delitto di inquinamento ambientale), «ecosistema» (delitti di inquinamento e disastro ambientale), «alterazione irreversibile» (delitto di disastro ambientale), «eliminazione conseguibile solo con provvedimenti eccezionali» (delitto di disastro ambientale), «morti e lesioni conseguenti a reati diversi dall’art. 452-ter c.p.».
Conclude, in proposito, la citata relazione: «… un numero relativamente contenuto di contestazioni non deve essere necessariamente interpretato come un dato negativo, ma può risultare dovuto ai fattori strutturali illustrati in precedenza, quali in primo luogo la complessità delle nuove fattispecie delittuose, che richiedono lunghe e complesse attività di indagine, con la presenza di nuclei investigativi specializzati e di strutture deputate al compimento di prelievi ed analisi. L’incidenza di tali fattori può risultare acuita, come si è visto, dall’eventuale presenza di criticità applicative, che potrebbero d’altra parte indurre gli stessi uffici giudiziari ad applicare le nuove norme con una certa prudenza in attesa proprio dell’emanazione di apposite direttive o della definizione di chiari indirizzi giurisprudenziali».
Credo che sia proprio questo il punto da sottolineare. Perché la risposta più frequente che veniva e viene data a chi evidenziava ed evidenzia le criticità della nuova normativa è che, se pure è vero che ce ne sono, esse saranno risolte dalla Cassazione in sede di interpretazione.
Francamente mi sembra un ragionamento abnorme. La legge sugli ecodelitti viene giustamente considerata una legge fondamentale dello Stato. Come può la politica abdicare alle sue prerogative di legislatore per scaricare i suoi errori e le sue incertezze sulla magistratura? Che senso ha dire che «abusivamente» va bene in quanto la Cassazione lo interpreta e lo interpreterà in modo ampio? Non sarebbe, comunque, meglio evitare di creare questo problema? E se la Cassazione cambiasse orientamento (peraltro, non univoco)?
Così come è vero che l’unica sentenza della Cassazione sui nuovi delitti propone alcune «interpretazioni costruttive» di alcuni termini ambigui (segnalati tra le «criticità applicative» dagli uffici giudiziari) ma, per ora, si tratta di una sola sentenza, mentre, come abbiamo visto, molti uffici giudiziari restano titubanti e, salvo casi macroscopici, preferiscono attendere per l’applicazione delle nuove fattispecie di delitti.
E che dire dei due errori veramente inaccettabili sfornati dal legislatore nella legge 68 a proposito dei rapporti tra il vecchio disastro innominato ed il nuovo disastro ambientale[8] ovvero quando ipotizza un tentativo del tutto incompatibile con la natura del reato colposo[9] ?
Anche ad essi dovrà rimediare la Cassazione con qualche giurisprudenza creativa?
E siamo così giunti al nocciolo del problema. Premesso che la qualità delle nostre leggi di tutela ambientale è scarsa, tutto si può fare a livello politico. Come abbiamo detto, si può anche scegliere di emanare una legge carente e confusa di fronte all’alternativa del niente. Ma allora onestà vuole che non ci si abbandoni a trionfalismi fuori posto e si dica con chiarezza che si è fatta una scelta tutta politica e che, non appena la situazione lo permetterà, si porrà mano alle modifiche normative più urgenti e rilevanti fornendo i chiarimenti necessari alla sua sollecita e corretta applicazione[10].
Nel frattempo, si può e si deve auspicare che la Cassazione svolga il suo ruolo nomofilattico ma non si può scaricare sulla Suprema Corte il peso di sopperire a evidenti carenze legislative, magari andando (anche se a fin di bene) oltre i suoi poteri. In uno Stato di diritto ogni potere deve assumersi le sue responsabilità e rispettare i limiti imposti dalla Costituzione. E deve farlo al più presto, perchè la legge sugli ecoreati non ha bisogno di nuove polemiche o di rassicurazioni mistificanti ma di essere applicata subito, in modo uniforme e generalizzato, su tutto il territorio dello Stato. Specie con riferimento ai nuovi delitti (mentre oggi la parte più applicata − peraltro con molte incertezze − è quella riferita alla estinzione delle vecchie contravvenzioni).
*già procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Civitavecchia
Articolo apparso su Questione Giustizia
[1] Si rinvia al mio Il diritto penale dell’ambiente: dalla legge sulla pesca del 1931 agli ecoreati del 2015, EPC, Roma 2016.
[2] Né sembra che il problema sia stato risolto, se non in parte, dalla recente (art. 13, comma 1, legge 116/2014) introduzione dell’art. 242-bis con una «procedura semplificata per le operazioni di bonifica» che riguarda solo «l’operatore interessato a effettuare, a proprie spese, interventi di bonifica del suolo con riduzione della contaminazione ad un livello uguale o inferiore ai valori di concentrazione soglia di contaminazione…», restando il «responsabile della veridicità dei dati e delle informazioni forniti».
[3] In realtà, la farraginosità della procedura è tale che essa non si conclude quasi mai
[4] In proposito, cfr. il mio Fine rifiuto (eow) caso per caso: questa volta il Ministero dell’ambiente ha esagerato, in www.industrieambiente.it, 2016
[5] In proposito, anche per citazioni e richiami, rinvio al mio Il diritto penale…, cit., pag. 305 e segg. Da ultimo, cfr. la relazione per una prima modifica della legge, messa a punto da un gruppo di lavoro (magistrati e docenti) coordinato dal Procuratore della Repubblica di Roma, (in Atti del convegno organizzato dalla Commissione parlamentare di inchiesta su ecomafia del 23 febbraio 2017, per la presentazione di una relazione sulla verifica dell’attuazione della legge 22 maggio 2015, n. 68, in materia di delitti contro l’ambiente), ove (doc. n. 26, pag. 46), in proposito, si afferma che «la presenza dell’avverbio appare anche semanticamente errata, posto che la stessa nozione di disastro ambientale abusivo costituisce una chiara contradictio in terminis».
[6] Cfr. nota che precede. La relazione in esame è stata curata dal magistrato dott. Giuseppe Battarino, consulente della Commissione.
[7] È appena il caso di evidenziare che altrettante se non maggiori criticità risultano riscontrate a proposito della parte sesta-bis aggiunta dalla legge n. 68 al D. Lgs 152/06 per la estinzione, attraverso una procedura prescrizionale, delle contravvenzioni previste dal citato D. Lgs.
[8] art. 452-quater, comma 1 «Fuori dai casi previsti dall’art. 434…» con la conseguenza che una fattispecie di reato solo sussidiaria e punita con pena inferiore (disastro innominato) sembra dover prevalere rispetto alla nuova fattispecie. Tanto che autorevole dottrina (Padovani, Guida al diritto, il Sole 24 ore, agosto 2015, pag. 10 e segg. afferma che questa disposizione costituisce una «mostruosa meraviglia che sembra davvero uscire dalle regole dell’assurdo, se l’assurdo ha delle regole»).
[9] Art. 452-quinquies, comma 2: «Se dalla commissione dei fatti di cui al comma precedente (inquinamento o disastro ambientale colposi) deriva il pericolo di inquinamento ambientale o di disastro ambientale le pene sono ulteriormente diminuite di un terzo». Secondo Padovani, op. loc. cit. si tratta di una disposizione «evidentemente priva di senso. Dal fatto colposo di inquinamento o di disastro non può scaturire il pericolo dell’evento che si ipotizza realizzato».
[10] Questo è esattamente quanto si è proposto il gruppo di lavoro coordinato dalla Procura di Roma di cui alla nota n. 5
Trackback dal tuo sito.