D’Alì, si va in Cassazione
Motivazioni dirompenti ma per i giudici del secondo grado scatta ugualmente prescrizione e assoluzione. Il pg Gozzo presenta ricorso alla massima corte contro la sentenza di appello. Il giallo su un telegramma mandato dal carcere di Virga jr
“Accertata condotta illecita”. I giudici della Corte di Appello di Palermo (presidente Daniela Borsellino, a latere Agate e Calvisi) nelle motivazioni della sentenza del processo che ha visto imputato il senatore trapanese Antonio D’Alì e con la quale hanno dichiarato prescritto il reato di concorso esterno in associazione mafiosa contestato alla data del 1994, pronunciando assoluzione per il periodo successivo, per insufficienza di prove, hanno riconosciuto un dato preciso: prima del 1994 D’Alì era in contatto con i mafiosi.
Come ha anche scritto il giudice di primo grado, anche i giudici di appello hanno riconosciuto che “l’imputato ha contribuito con coscienza e volontà al rafforzamento di Cosa nostra, fino ad epoca successiva e prossima al mese di gennaio 1994″. L'”accertata condotta illecita” è legata alla compravendita di uno spezzone di terreno, un vigneto, nella contrada Zangara di Castelvetrano. Terreno venduto al gioielliere Geraci ma di fatto diventato proprietà di Cosa nostra e del suo capo dei capi, il famigerato Totò Riina sanguinario tanto quanto il suo figlioccio Matteo Messina Denaro, vigneto poi confiscato. Una vendita fittizia, segnata dalla restituzione da parte di D’Alì del denaro, 300 milioni di vecchie lire a Geraci, mandato apposta a riprendersi il denaro dal boss Matteo Messina Denaro.
Per i giudici di appello però sono mancate successivamente a questo episodio condotte che si possono leggere come sintomatiche della volontà dell’imputato a sostenere Cosa nostra. La sua prima elezione al Senato, nel 1994, seppure “appoggiata elettoralmente dall’associazione mafiosa” non è per i giudici prova della disponibilità del politico a favorire la mafia e la famiglia dei Messina Denaro. A salvare D’Alì da una contestazione di colpevolezza, ossia l’esistenza di un patto elettorale politico-mafioso, è stato il famoso 61 a zero di quelle elezioni, quando Forza Italia, partito nel quale D’Alì si candidò (dove è adesso tornato dopo un abbraccio durato poco con Alfano e l’Ncd), conquistò tutti i seggi parlamentari messi a disposizione in Sicilia.
Insomma per i giudici mafia a parte quella elezione fu sostenuta dal vento elettorale che in quell’anno soffiò in Sicilia tutto a favore di Forza Italia. A seguire però, a pagina 64 delle motivazioni della sentenza, depositata a fine dicembre scorso, giudice estensore Agate, i giudici di appello hanno dovuto riconoscere che se da un lato nessun collaboratore di giustizia ha fatto riferimento all’esistenza di un patto politico elettorale è pur vero che i collaboratori sentiti “hanno più volte ribadito che si trattava di persona vicina all’associazione mafiosa e disponibile in caso di bisogno”. È mancata la prova certa, hanno scritto i giudici, ma l’alone di dubbio attorno all’ex sottosegretario all’Interno e sui suoi rapporti con la mafia, è rimasto. Probabilmente questo è il caso in cui dovremmo riconoscere pieno valore alle parole del procuratore Paolo Borsellino pronunziate in quel diventato famoso incontro in una scuola a Bassano del Grappa: “i giudici possono pure non avere le prove per pronunciare una condanna ma nelle sentenze di assoluzione si possono trovare elementi che dovrebbero indurre i partiti, la società civile, a riconoscere l’esistenza di concreti esempi di violazioni etiche e morali, tali da diffidare da quel politico”; questo sostanzialmente il senso dell’intervento che fece Paolo Borsellino.
Insomma, la sentenza di prescrizione e assoluzione a favore del senatore D’Alì fa trasparire che a queste conclusioni i giudici sono arrivati a fatica, e così il politico si è salvato per il rotto della cuffia. Cosa dicono infatti i giudici nella parte finale: “le condotte oggetto di contestazione non risultano essere compiutamente comprovate per mancanza di adeguati e specifici riscontri, negli interventi fatti da D’Alì, nella sua veste istituzionale, successivamente al 1994 (e in particolare in quelli riferiti dall’imprenditore collaborante Birrittella per gli appalti legati alla Coppa America del 2005 e per i finanziamenti a imprese presenti in un patto territoriale, leggasi consorzio turistico ndr) appare difficile ipotizzare che lo stesso abbia inteso avvantaggiare l’associazione mafiosa piuttosto che taluni imprenditori che soltanto in epoca successiva sono stati condannati per associazione mafiosa”. D’Alì si è ritrovato dalla parte di imprenditori legati alla mafia…a sua insaputa! Sfurtunateddo!! D’Alì successivamente al 1994, hanno scritto ancora i giudici, “non ha più operato fattivamente in favore dell’associazione mafiosa” e quindi è stato assolto; prima del 1994 il rapporto ci fu e però “è intervenuta la prescrizione”.
Il pg Gozzo che aveva chiesto la condanna a 7 anni del parlamentare trapanese, ragionando su queste e altri circostanze ha adesso argomentato il proprio ricorso in Cassazione, chiedendo l’annullamento della sentenza di appello. Rilevante la parte della sentenza sulle dichiarazioni indirettamente arrivate dall’ex moglie del senatore D’Ali. I giudici si sono parecchio soffermati sulle “confessioni” di Maria Antonietta Aula, raccolte anni addietro dalla giornalista de “Il Fatto Quotidiano”, Sandra Amurri, a proposito dei rapporti dell’imputato con i Messina Denaro, ritenute inattendibili dal giudice di primo grado, perché, fu scritto, frutto di astio nei confronti dell’ex coniuge, per i giudici di appello sono state ritenute improntate “alla massima genuità e lealtà…non si condivide – hanno scritto i giudici – il giudizio di inattendibilità”. La signora Aula fu sentita a sommarie informazioni dai magistrati e fu meno dettagliata nel riferire al pm una cosa che invece dialogando con la giornalista Amurri aveva bene ricordato. Un telegramma ricevuto dal’ D’Alì sul finire del 1998 e inviato da Franco Virga, figlio del capo mafia trapanese Vincenzo Virga, allora latitante. Virga jr all’epoca era in carcere e il tenore del telegramma sarebbe stato il seguente: “Tu sei là che ti diverti ed io sono qua rinchiuso”.
La moglie chiese al marito ragione di quel telegramma, “non lo questo è un pazzo ovvero un cretino” fu la risposta come così riferita dalla signora Aula alla giornalista. La signora Aula al pm, che l’ha convocata dopo quella intervista, non ha ripetuto ciò che aveva detto alla Amurri (che al magistrato ha consegnato prove di quella discussione), alla quale aveva anche ricordato che successivamente alla separazione consegnò di sua sponte il telegramma all’oramai ex marito, ma fornì al magistrato una generica descrizione dei fatti, poi la difesa ha ricostruito uno scenario, che convinse il giudice di primo grado, di parole pronunziate per astio.
Tesi che i giudici di appello hanno però respinto. E, infine, se per la difesa è mancata la prova che dal carcere il giovane Virga abbia mandato davvero quel telegramma, e gli accertamenti svolti hanno accertato che Francesco Virga dal carcere non ha mandato alcun telegramma, dagli stessi accertamenti è emerso che nel 1998 Franco Virga era in “socialità” con altri sette detenuti che sono risultati mittenti di telegrammi spediti proprio in quel periodo, fine del 1998, “telegrammi dei quali si disconoscono i destinatari”, “sicché appare ipotizzabile, anche se non processualmente accertato, che il predetto detenuto (Franco Virga ndr) abbia potuto usufruire dei favori di uno dei suoi compagni di detenzione”.
Trackback dal tuo sito.