Quando parliamo di agromafie
Ho partecipato a un seminario di studi presso il Dipartimento di Agraria dell’Università di Perugia. Era organizzato con la collaborazione di tre differenti dipartimenti: Agraria, Scienze politiche e Giurisprudenza.
Alla luce de “Le nuove mafie nel sistema agro-alimentare” si era chiamati ad approfondire tutti gli aspetti delle cosiddette agromafie, ovvero delle infiltrazioni mafiose nel ciclo dell’alimentazione, dal caporalato allo smaltimento dei rifiuti, dal controllo della distribuzione e dei mercati ortofrutticoli alle frodi ai danni delle istituzioni europee, dalle contraffazioni alle italian sound (parmesan…). E in effetti l’illustrazione dei temi è stata ricca e pressoché esauriente anche con l’aiuto di Giancarlo Caselli.
Ma non c’è stata alcuna incursione su quanto avviene all’estero, nei Paese più poveri, quelli da cui saccheggiamo materie prime, quelle che sono oggetto del landrabbing (accaparramento delle terre), quelli in cui imponiamo coltivazioni e produzioni di cui noi abbiamo bisogno, ma che comportano la distruzione di biodiversità e coltivazioni tradizionali che servirebbero alla sopravvivenza alimentare delle popolazioni indigene. E non sono che alcuni esempi dello scempio che avviene quotidianamente in giro per il mondo ad opera di multinazionali dai comportamenti mafiosi e di aziende che si servono di mafie locali.
Ancora una volta paghiamo il dazio di un provincialismo (a volte persino interessato) che nella sua miopia rischia di sostenere esattamente quei comportamenti che si vuole condannare.
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