“L’innocente”, ritrovato il racconto d’esordio di Pippo Fava
Cammino, chiuso nella mia ombra, piegato dal mio dolore. Io non so dove vado, non so dove andrò in questa notte che non avrà più fine, in questa tenebra che non avrà più luce. Cammino, barcollando, trascinando questa disperazione che porto con me segnata nella carne, segnata nell’anima e nel respiro. Dietro di me c’è l’ombra, davanti a me c’è l’ombra. Con la spalla sfioro i muri viscidi e freddi. Sento la folla che passa, senza fine, che ride, che urla. Mi sfiora, mi aggira, mi urta; e non ha fine, non ha misericordia. Viene dall’ombra, da lontano, come una marea infinita che non ha requie. Sorge dall’ombra dietro le mie spalle, mi sorpassa, sorge dall’ombra dinanzi al mio sguardo spento, mi viene incontro, mi ferma, mi travolge. E io cammino brancolando, con l’anima piagata da una pena che non avrà mai rimedio, cammino per andare dove il mio respiro stanco saprà portarmi, per portare lontano con me una luce che non potrà mai più essere mia.
Tra le mie braccia impietrate date dal freddo e dalla stanchezza, serrato contro il mio petto, porto un bene che più non mi appartiene. Un bene infinito, che non ha nome; che io porto fra le mie braccia, ha vinto il mio cuore in una doglia infinita che non può avere pietà. Era fatto di me, del mio respiro, del mio amore. Nell’ombra che mi grava sullo sguardo e sull’anima, quello era la mia luce. Lo sento contro la mia carne, fra le mie braccia sfinite che non sapranno mai lasciarlo, vicino alla mia pena e al mio respiro.
Mio figlio! La mia mano sfiora il suo volto, la sua bocca, i suoi capelli; mio figlio! Lo porto con me barcollando, tremando nella folla che urla, che passa, che ride, lo porto sul mio cuore, avvinto a me da una catena fragile che domani non ci sarà più, segnato in me da una disperazione senza fine. È morto! Il suo corpo è freddo, i suoi capelli sono intrisi di nebbia, le sue labbra sono mute e immobili contro la mia carne. Pioviggina. La gente passa lungo i muri; mi urta; ma io non vedo; da tanti anni non vedo, perduto irrimediabilmente in un’ombra dove egli era la sola luce. La folla non si arresta, cresce si avanza, mi raggira, mi travolge. Viene da lontano, da un orizzonte che si perde nella notte, da un infinito che sorge dalla nebbia. La mia mano cerca il volto del mio bambino, segue la linea dei capelli, degli occhi, delle labbra, cerca un respiro che non c’è più.
Poche ore fa è morto mentre io in un angolo, sugli scalini della chiesa, lo stringevo fra le mie braccia. Ho sentito il suo respiro che se ne andava adagio nella mia disperazione, ho sentito che il suo capo si reclinava sul mio petto, che le sue labbra fredde sfioravano la mia mano tremante in un’ultima, inutile carezza d’amore. L’ho chiamato adagio, il mio bambino con le parole che mi morivano nella gola, adagio, cercando con le mie mani nel suo corpo un fremito, un palpito che mi dicesse di non averlo perduto. E, adagio l’ho chiamato, singhiozzando come lui singhiozzava quella sera che io lo uccisi; come quella sera che lo trovai nella pioggia, seduto dietro la porta ad aspettare che io mi ricordassi di lui, di mio figlio.
Io lo creai un giorno, di me, del mio spasimo, del mio sangue; io l’ho perduto, e intorno a me non c’era anche un ombra tremenda che non avrà più luce e misericordia.
Fu quella sera. Quella sera di pioggia e di freddo, che io perdetti mio figlio. Eravamo stati all’angolo del corso, vicino alla chiesa, lui aveva venduto qualche foglio con quella canzone che io suonavo sulle corde stonate della mia chitarra. La gente passava indifferente, ogni tanto qualcuno comperava un foglio. Sentivo il mio bambino che correva con i piedi nudi sul selciato bagnato, poi veniva da me a toccarmi una mano, a dirmi che ne avevamo venduto un altro, che quella sera avremmo avuto il nostro pane. Quando la pioggia divenne più forte, andammo a casa. Vannino m’aveva preso per mano, mi guidava fra la gente e io lo seguivo chiuso nell’ombra del mio sguardo, stringendogli la manina screpolata dal freddo. Tenevo la chitarra logora e consunta sotto la giacca perché non si bagnasse. La via era piena di fango; sentivo l’acqua entrarmi per le scarpe. Pensai che con quel poco di denaro che avevo a casa avrei potuto comprare un paio di scarpe per il mio bambino. Poi, ricordo, arrivammo; la segheria vicina lavorava nella notte. L’urlo stridente del legno che si spaccava, feriva la notte come un lamento. Il mio bambino mi lasciò; disse che andava a comperare del pane. Si allontanò e lo scalpiccio dei suoi piedi si perdette nel grido dell’officina che si incideva nel buio. Entrai, posai lo strumento sul tavolo, m’avvicinai al letto. Sentii che c’era qualcuno, lo sentii nel silenzio per una di quelle sensazioni strane che solo noi ciechi proviamo. Era Lucio. Mi disse che aveva portata quella donna di cui mi aveva parlato, che lei era in una casa vicina, che bisognava far presto perché c’erano altri clienti. Non parlai, non risposi. Sentiti un fuoco che mi saliva dalle vene, che mi bruciava, che mi tonfava alla nuca.
Una donna! Una donna per una notte, per due ore, per un’ora. Da quando era morta la mia, non avevo mai avuto una donna. A volte la notte, arso dal desiderio, stavo per ore con il respiro che mi moriva e mi bruciava nella gola, con le mani che cercavano nell’ombra tremando un inutile, dolorante ricordo di mia moglie.
Sentii che Lucio se ne andava. Di farla venire gli dissi, di farla venire perché quella febbre maledetta mi segnava le carni come un brivido. Mi lasciai andare sul letto, di fianco, con il volto, con le labbra sul cuscino, singhiozzando, dove lei, la mia donna era morta.
L’uscio scricchiolò; la voce della segheria s’intrideva nella nebbia come un urlo di belva, più forte, senza rimedio nella notte. Compresi che la donna era entrata, che s’avvicinava; l’urlio dell’officina si era incupito come la voce di uno spasimo che non aveva fine. Sentii accanto a me un respiro, un corpo che si adagiava accanto al mio, che si svestiva nell’ombra.
Fuori pioveva; il vento scuoteva i vetri in un urlio d’affanno. Lontano, il grido del legno che si frangeva, pareva una voce che mi chiamasse, che mi chiamasse.
Quando lei se ne andò, era forse l’alba. Le diedi il denaro, tutto quello che avevo. Dalla porta aperta una ventata gelida fece entrare una raffica di pioggia. L’uscio sbattè due volte contro il muro, scricchiolando. La donna si allontanò correndo. Sentii piangere fuori dalla strada, accanto al gradino; un pianto accorato, senza consolazione, senza rimedio. Mio figlio, Vannino, la mia creatura! Sentii nel cranio come uno schianto, come un urlo tremendo di febbre e di spavento. M’avvicinai barcollando, nella mia ombra miserabile che mi si scavava dinanzi come una fossa d’abisso.
Caddi accanto a lui cercandolo disperatamente con le mani che brancolavano, lo trovai chino, poggiato al muro, che piangeva senza sapere parlare, inchiodato al fango dal freddo e dall’acqua. Lo portai dentro sulle mie braccia, lo distesi sul letto, mi inginocchiai singhiozzando con il mio volto sul suo corpicino intirizzito. Poi non ricordo.
Solo la mattina quell’urlo maledetto del legno che irrideva alla mia miseria senza speranza. L’indomani gli venne la febbre. Piangeva sempre, senza parlare, disperatamente. Io avevo tradito la mia donna, la sua mamma. Piangeva per il suo dolore e per la mia miseria. Moriva per la mia colpa e per la sua innocenza. Lo veglia hai per quel giorno e l’altro ancora, e per sempre, in ginocchio, di notte, di giorno, in quell’ombra infinita che ci riuniva in un solo il rimediabile dolore.
Moriva; lo sentivo dal suo respiro che se ne andava ad ogni minuto, in quel suo pianto accorato che più non poteva avere pietà e misericordia. Non avevo denaro, nessuno poteva darmene. Io ero un miserabile cieco, cantastorie all’angolo del corso. Poi l’altro giorno vendetti la mia chitarra e chiamai un medico. Era vecchio ed era buono. Mi disse che non c’era niente da fare, che era finita, ora mai. E quella voce stanca di vecchio mi parve segnasse sull’anima mia una maledizione senza speranza e senza fine. D’allora sono rimasto accanto al mio bambino, col capo chino sulle sue braccia, senza anima e senza vita. Da quanto tempo non ricordo, in ginocchio accanto al mio figlio che moriva.
Poi stasera Vannino mi ha mormorato che il respiro gli soffocava. Mi ha detto delirando che voleva andare al corso, a vendere le sue canzoni. L’ho preso tra le mie braccia, sono uscito, con la mia creatura morente, serrata contro il mio petto.
Questo racconto può essere considerato l’esordio pubblico di Fava come scrittore. Aveva vinto il concorso letterario bandito da “La Sicilia” e fu pubblicato dal giornale Domenica 16 novembre 1947. Due giorni dopo conseguì la laurea in Giurisprudenza, aveva 22 anni.
Catania, Fondazione Fava 14 settembre
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