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Bergamo, un dossier per aprire gli occhi sulle mafie

Luca Bonzanni il . Lombardia

Cinquantadue anni di mafia, cinquantadue anni di fatti, storie e nomi. Perché anche a Bergamo, anche in una terra a lungo considerata «impermeabile», la criminalità organizzata ha saputo affondare radici profonde. L’Osservatorio sulle mafie in bergamasca del Coordinamento provinciale di Libera ha provato a mettere in fila quei tanti episodi facilmente dimenticati o passati inosservati: ne è uscita una cronistoria capace di graffiare il muro di silenzio attorno a un argomento spesso sottovalutato, un lavoro culminato nella pubblicazione del dossier «Mafie e criminalità organizzata in provincia di Bergamo», presentato nel capoluogo orobico lo scorso 23 maggio.

La stagione del confino. Dal 1964, dall’arrivo del boss Giuseppe Genco Russo a Lovere, cittadina affacciata sul lago d’Iseo, sino alle vicende più recenti aggiornate al 31 dicembre 2015, nero su bianco viene tratteggiato l’identikit del tentativo di colonizzazione di un altro pezzo del Nord Italia. Il tutto secondo le direttrici tradizionali dell’insediamento dei clan nel Settentrione, con la stagione del soggiorno obbligato ad aprire i primi varchi. Tra 1961 e 1971, in Bergamasca giungono 61 soggetti sospettati di appartenere alle organizzazioni mafiose, è il dato più alto di tutta la Lombardia. E i nomi sono di primissimo piano: oltre al «patriarca di Mussomeli», la provincia orobica «ospita» anche Mariano Tullio Troia, Damiano Caruso, Luciano Liggio.

Il boom dei sequestri. Gli anni Settanta segnano poi l’esplosione dei sequestri di persona, primo squillante campanello d’allarme dell’azione criminale dei clan anche al Nord, e Bergamo ne è importante epicentro. A Treviglio, nella tenuta dell’ex confinato Giacomo Taormina, vengono tenute prigioniere le prime vittime dei rapimenti di Cosa nostra in Lombardia, gli industriali Pietro Torielli (rapito nel 1972, poi liberato per un miliardo e 250 milioni di lire) e Luigi Rossi di Montelera (nel marzo 1974 è il primo a essere liberato dalle forze dell’ordine); nel 1973, in Città alta, il «salotto buono» di Bergamo, viene rapito per la prima volta un bambino, Mirko Panattoni, sette anni appena all’epoca dell’agguato. Il 1974 è anche l’anno del sequestro di Pierangelo Bolis, fotografia plastica del modus operandi applicato dalla ‘ndrangheta, organizzazione presto diventata egemone in questo settore criminale: la pianificazione da parte del clan platiota di Domenico Barbaro, il supporto di appartenenti ai clan Sergi e Perre residenti in Bergamasca, il coinvolgimento della delinquenza locale, il riciclaggio del riscatto (500 milioni di lire) in Australia, tutto ricostruito nel dossier di Libera. Che racconta anche del radicamento della malavita autoctona bergamasca, capace di operare all’estero con rapine e sequestri importanti (nel 1982, in Olanda, un rapimento frutterà dieci miliardi di lire di riscatto). In tutto, sono una quarantina i casi che coinvolgono la provincia bergamasca.

La droga. Il salto di qualità è dietro l’angolo, nel dossier emerge dalla progressione dei fatti narrati. La droga in primis, in un continuum che dagli anni Ottanta giunge sino ai giorni nostri: sono sei le raffinerie o i laboratori gestiti da ‘ndrangheta, Cosa nostra o narcos colombiani di cui si dà conto nel testo, dall’imponente cascinale di Rota Imagna (allestito tra 1989 e ’90 dal clan Sergi col supporto di Roberto Pannunzi, è stata la raffineria più grande del Nord Italia) alla vicenda della «serra» di Telgate, smantellata nel 2004 e culminata in un duplice omicidio (ordinato dalla famiglia di Pablo Escobar) che tre anni più tardi spezza le vite di Leone Signorelli, ex «referente» del laboratorio e diventato in seguito collaboratore di giustizia, e Giuseppe Realini, unico testimone della prima morte.

Il sangue. Perché anche in Lombardia il crimine spara, versa sangue, uccide. Il dossier racconta 28 casi di omicidio: episodi di chiara matrice mafiosa, altre vicende incastonate in faide tra piccole gang dedite a spaccio, prostituzione o azzardo, ma anche uccisioni rimaste irrisolte che presentano tuttavia le tipiche modalità della criminalità organizzata. Colpi di grazia, corpi carbonizzati, esecuzioni in piena regola. E pure un caso di sparizione, quella di Michele Rodriguez Larreta, giovane italo-spagnolo con origini bergamasche, scomparso a Palermo l’11 giugno 2011 dopo essere partito proprio da Bergamo: dalla vicenda, al vaglio degli investigatori dell’Antimafia, sarebbe emerso il collegamento con membri del clan di Matteo Messina Denaro attivi nel narcotraffico sulla piazza bergamasca.

I clan. E c’è il tentativo del controllo del territorio, raccontato nella pubblicazione di Libera attraverso un fitto intreccio di nomi, personaggi, luoghi e storie. Risale al 1975 l’«apertura» del locale di ‘ndrangheta di Calolziocorte (cittadina appartenuta alla provincia di Bergamo sino al 1992), uno dei più antichi della Lombardia, cui si aggiungono le due cosche individuate tra Bassa bergamasca e Valcalepio (quest’ultima legata al potente clan Bellocco) dall’operazione «’Nduja» nel 2005, la più importante inchiesta anti-‘ndrangheta che ha coinvolto la provincia orobica: una quarantina di misure cautelari, oltre cento indagati, omertà e timori costanti in sede processuale, condanne pesanti in primo e secondo grado (fino a 26 anni per 416-bis) cancellate tuttavia da un vizio procedurale ravvisato dalla Cassazione.

I numeri. E dal quel 2005 a oggi, sono quasi un centinaio gli arresti per mafia o criminalità organizzata che hanno coinvolto la Bergamasca: basta spulciare le carte di ogni grande inchiesta contro i clan nel Settentrione, i collegamenti con questa provincia non mancano mai. Altre cifre dal dossier: un totale di 314 episodi raccontati (tra vicende di cronaca e rapporti istituzionali; 31 nel solo 2015), 122 comuni «citati» su un totale di 242, undici latitanti di mafia rintracciati in provincia e altri quattro che qui si sono costituiti, tre narcotrafficanti bergamaschi arrestati all’estero (tra cui, ovviamente, Pasquale Claudio Locatelli). E tanti campanelli d’allarme spesso ignorati: come i 55 incendi dolosi o sospetti registrati negli ultimi dieci anni, segnale tipico dell’intimidazione criminale. Chiudere gli occhi, ora, sembra più difficile anche per Bergamo.

 

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