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Caso Maniaci: aspetto scuse per le tante vittime di mafia

Paolo Borrometi il . Sicilia

Lo voglio dire subito: sono inorridito, disgustato, arrabbiato per tutto ciò che ho letto – e soprattutto visto, nel video diffuso dalla Procura di Palermo – sui comportamenti di Pino Maniaci. E, sia ben chiaro, non mi riferisco né voglio neanche commentare la presunta estorsione, cioè il passaggio di denaro che dalle mani di un sindaco del palermitano finisce nelle tasche di Maniaci.

Per tutto ciò ci penseranno i giudici, Maniaci si difenderà ed aspetteremo le sentenze. Ho troppo rispetto per il lavoro degli inquirenti e della magistratura.Le parole che mi inorridiscono e mi provocano un dolore non descrivibile, sono quelle sui presunti atti intimidatori, sulla morte dei suoi cani. Maniaci, nelle intercettazioni, parlando con la sua “amichetta del cuore”, accusa il marito “mi ha ammazzato i cani. Mi ha fatto trovare i cani impiccati sto porco. Ora succede il bordello, perché ora non esce che li ha ammazzati Gino Bua, ora esce che è stato un atto intimidatorio. Ora la scorta mi danno”.

Pochi minuti dopo, però, si dimentica il colpevole e dà la colpa a cosa nostra. Ecco, sono queste le parole che mi fanno schifo. Perché vivere sotto scorta, perdonatemi la franchezza, vuol dire fare una vita di merda. A maggior ragione se sei precario, senza né tutele, né garanzie contrattuali.Perché subire le intimidazioni, le minacce ed anche le aggressioni, vuol dire smettere di vivere. Vuol dire avere paura. Vuol dire guardare i propri cari e sentirsi in colpa, per il sol fatto di fare il proprio lavoro.

Vuol dire trattenere le lacrime, anche di rabbia, come quelle di chi è costretto a dover affrontare i processi come parte lesa e guardare in faccia quei “mezzi uomini” che ti vorrebbero morto.Ecco, queste sue parole mi fanno schifo e su queste non attendo una sentenza della magistratura, attendo delle pubbliche scuse. Aspetto delle scuse per la memoria delle tante vittime di mafia, delle scuse per chi credeva (e vorrebbe, magari, continuare a credere) al suo impegno o per chi vive quella sofferenza e quell’angoscia.

Perché se la sua denuncia voleva smascherare la “mafia dell’antimafia”, oggi rischia di produrre un solo vincitore: la mafia, che gongola nel fare i propri affari mentre gli inquirenti (che lui insultava e derideva), sono costretti ad occuparsi di altro. Perché adesso, come accaduto con i politici dopo tangentopoli, la gente penserà sui giornalisti “hai visto? Sono tutti gli stessi!” ed inizieranno a invischiarti nello stesso fango. E questa cosa è estremante dolorosa, oltre che molto pericolosa e soprattutto molto ingiusta.E’ arrivato il momento di fermarsi, riflettere e ragionare. La questione che riguarda Pino Maniaci è molto più seria e profonda di quanto si possa immaginare. Ad iniziare dai contributi che, le amministrazioni locali, danno all’emittenza locale, rischiando di creare la cosiddetta “sudditanza psicologica” o, ancor peggio, il meccanismo della riconoscenza. No. Un giornalista deve essere un “cane da guardia”, non si può prostituire.

E basta cercare eroi. Nessuno di noi vuole fare l’eroe, né ancor meno, vuole diventarlo. Ciò che rimane, invece, è l’ennesimo colpo durissimo alla credibilità dell’antimafia. Quando Borsellino morì, Caponnetto disse “è tutto finito”. Oggi, come mai, mi chiedo se ne valga la pena. Per fortuna, però, non siamo tutti gli stessi. No, non lo siamo.

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