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Taranto, le mani del clan D’Oronzo – De Vitis sulla città

di Antonio Nicola Pezzuto il . Puglia

Alias 2”, questo il nome dell’operazione di polizia che ha consentito di assestare un duro colpo al clan mafioso D’Oronzo – De Vitis. Il blitz è stato portato a termine dalla Squadra Mobile di Taranto in collaborazione con il GICO della Guardia di Finanza di Lecce sotto la regia del Sostituto Procuratore Alessio Coccioli della Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce.

In carcere sono finiti Massimo Zamino e Gianluca Nuzzo mentre ammonta ad oltre 4 milioni di euro il valore dei beni sequestrati al clan.

L’indagine “Alias 2” era stata preceduta dall’inchiesta “Alias” del 6 ottobre 2014 che aveva portato all’arresto di 52 persone dello stesso clan accusate, a vario titolo, dei reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, omicidio, estorsione, rapina e detenzione di armi. Anche in quell’occasione, a coordinare l’attività, era stato il PM Alessio Coccioli.

La prima operazione era stata denominata “Alias” perché tutti gli indagati avevano un nomignolo: i due capi, Orlando D’Oronzo e Nicola De Vitis, venivano soprannominati “Fratello Grande” e “Fratello Piccolo”.

IL blitz dello scorso ottobre aveva portato alla luce la situazione di una città assoggettata alla forza criminale del clan che si era compattato intorno alle figure di Orlando D’Oronzo e Nicola De Vitis dopo la loro scarcerazione avvenuta nel 2011.

Un’associazione mafiosa che, come si legge nelle carte della magistratura, “aveva acquisito nuova linfa, essendo in grado di ingenerare nella generalità della popolazione quella condizione di assoggettamento e la conseguente omertà, propria di ogni associazione criminale di stampo mafioso”.

Il clan era ambizioso e mirava ad acquisire il controllo e la gestione di molteplici attività economiche con il conseguente riciclaggio dei proventi derivanti da altri reati.

In questo spiccava la “lungimiranza imprenditoriale” del D’Oronzo aiutato da Vincenzo Fabrizio Pomes, secondo gli inquirenti “imprenditore al servizio del clan ed indagato in relazione al delitto di concorso esterno in associazione mafiosa”.

Dalle intercettazioni emergevano i propositi di vendetta, l’ostilità di D’Oronzo e De Vitis nei confronti di alcuni soggetti e l’intenzione di scatenare una nuova “guerra di mala” allo scopo di riaffermare la loro forza criminale per poter operare una spartizione territoriale tra i vari sodalizi criminali attivi su Taranto.

Nel luglio del 2013 si chiudevano le indagini che avrebbero portato all’operazione “Alias” del 6 ottobre 2014. Ma, prima ancora che questo blitz fosse eseguito, il 10 giugno 2014 il Sostituto Procuratore Alessio Coccioli decideva di delegare nuove indagini al Gruppo Investigazione Criminalità Organizzata della Guardia di Finanza di Lecce. Questa iniziativa veniva presa dal Magistrato proprio “in considerazione dei manifestati interessi economici in numerose attività imprenditoriali da parte dei vertici del sodalizio, talune avviate allo scopo di accaparrarsi la gestione di appalti e servizi”.

Le nuove indagini confermavano come il clan continuasse a perpetrare le sue azioni criminali ed emergeva l’intento dei sodali di progettare diverse rapine per finanziare l’organizzazione. Ma, soprattutto, confermavano l’indiscussa caratura criminale del duo D’oronzo – De Vitis che si evidenziava nei confronti degli altri membri del sodalizio, nei confronti di altri esponenti di clan mafiosi e anche nei confronti della popolazione. A tal proposito ci sono due episodi che ben descrivono il potere dei due e la forza di assoggettamento che avevano nei confronti dei cittadini.

Il De Vitis era stato autorizzato dal Tribunale di Sorveglianza di Verona a recarsi a Taranto dal 25 al 30 marzo 2014 per presenziare a un’udienza in relazione ad un’istanza di revoca della sorveglianza speciale di cui era gravato. In quei giorni sua madre era ricoverata presso l’Ospedale Moscati di Taranto. Le condizioni di salute della donna si erano aggravate e il De Vitis, al fine di prolungare la sua permanenza nel capoluogo Jonico, il 29 marzo, cioè il giorno prima del suo previsto rientro a Bovolone dove era costretto all’obbligo di soggiorno, simulava un malore che gli consentiva il ricovero fino al successivo 19 aprile, con la diagnosi di “sindrome vertiginosa”, nello stesso nosocomio in cui si trovava la madre. Questo è quanto veniva alla luce dalle intercettazioni e dalle testimonianze rese da numerosi medici.

Per raggiungere il suo scopo si avvaleva della complicità di un dipendente della struttura ospedaliera ma, soprattutto, della sua “notorietà criminale”.

A tal proposito un medico dichiarava agli investigatori: “…in quei giorni comunque all’interno del reparto vi era una sorta di condizionamento relativo al soggetto, dovuto al fatto che era stato detto che il De Vitis era un soggetto pericoloso e noto alle forze dell’ordine”. Un altro medico, in riferimento alla madre del De Vitis, affermava che la donna gli era stata indicata come: “la moglie di una persona soprannominata il melonaro, ammazzata nella vecchia guerra di mala accaduta a Taranto negli anni ‘90”. Il riferimento è all’omicidio di Paolo De Vitis, padre di Nicola, eseguito da Cosimo Murianni e Silvano Di Taranto su mandato di Riccardo Modeo.

Le indagini dimostravano che lo spessore criminale di Nicola De Vitis influenzava le attività degli operatori sanitari. Il livello di intimidazione era così elevato da condizionare le dinamiche relative al ricovero dei pazienti e alla loro collocazione al fine di creare le condizioni ideali per lui e sua madre all’interno dell’Ospedale.

Il caso più eclatante si verifica al momento del ricovero di un poliziotto nel suo reparto: “Ha detto ai medici: mandatelo via da questo reparto…oh lo…lo hanno spostato. Per farti capire chi è! Hanno spostato un poliziotto!”. Questo il contenuto della conversazione tra due sodali che magnificavano la caratura criminale del De Vitis che era riuscito ad allontanare dal suo reparto un poliziotto.

Un altro episodio testimoniava la forza di assoggettamento che aveva il clan. Orlando D’Oronzo aveva occupato un immobile insieme alla propria famiglia. Venivano incaricati di indagare due funzionari della Polizia Municipale di Taranto che, temendo ritorsioni personali, informavano l’indagato che non era una loro iniziativa ma una delega conferita loro dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce e di uno specifico magistrato di cui facevano il nome.

Dalle indagini sono emersi i contatti del clan con esponenti della ‘Ndrangheta vicini alla famiglia Mollica, a capo del locale di Africo Nuovo, al fine di approvvigionarsi di sostanze stupefacenti.

Gianluca Nuzzo e Massimo Zamino sono stati arrestati con l’accusa di concorso in associazione di stampo mafioso. In pratica, Zamino e Nuzzo avevano il compito di recuperare crediti per conto dell’associazione esercitando anche violenza nei confronti dei soggetti che non volevano pagare.

Gli inquirenti hanno scoperto il progetto di D’Oronzo e De Vitis di acquisire il controllo di alcune attività commerciali aggirando le disposizioni di legge in materia di prevenzione. Una vocazione imprenditoriale del clanpronto ad infiltrarsi nell’economia legale attraverso il riciclaggio dei proventi accumulati illecitamente.

Il clan cercava così, dapprima, di aprire un centro scommesse, poi, per sopraggiunti inconvenienti legati al rilascio delle necessarie autorizzazioni di pubblica sicurezza, optava per l’apertura di un bar con annessa sala slot machine.

Forte l’interesse del D’Oronzo per l’aggiudicazione di appalti e servizi presso le Pubbliche Amministrazioni. A tal fine si era fatto promotore di un consorzio di imprese per mettere le mani sui lavori di rifacimento del porto mercantile di Taranto.

Le indagini della Squadra Mobile di Taranto hanno consentito di accertare che Orlando D’Oronzo e Vincenzo Fabrizio Pomes con la complicità di funzionari del Comune di Taranto utilizzavano la cooperativa Falanto Servizi al fine di gestire il centro sportivo Magna Grecia nonché altre strutture comunali. L’obiettivo del clan era, inoltre, quello di aggiudicarsi gli appalti “per i quali il Comune aveva indetto delle gare pubbliche”.

Dalle indagini del GICO della Guardia di Finanza è emersa la sproporzione tra i redditi dichiarati dai componenti dell’organizzazione criminale e il patrimonio posseduto. Sono stati sequestrati conti bancari, terreni, quote societarie, interi compendi aziendali, auto, moto e diverse unità immobiliari per un valore di oltre 4 milioni di euro.

Dovete capire che adesso comandiamo noi”, dicevano gli esponenti del clan ai proprietari delle più fiorenti attività commerciali. E, in effetti, prima del provvidenziale e incisivo intervento della Magistratura e delle Forze di Polizia erano riusciti a mettere le mani sulla città.

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