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Sicilia, imprese a servizio di Messina Denaro

di Rino Giacalone il . Sicilia

Due procedimenti penali, due procedimenti per la confisca dei beni, un unico comune denominatore, la mafia che si è fatta impresa. Imputati due pezzi da ’90. Non hanno mai sparato ma le loro aziende sono state usate come pistole fumanti minacciosamente rivolte verso imprese concorrenti…ma non solo. Uno di questi imprenditori è Michele Mazzara, l’altro è Vito Tarantolo. Sopravvissuti economicamente ai diversi cambi di guardia, da totò Minore, a Vincenzo Virga, fino a Francesco Pace, i tre capi mandamento di Trapani giudiziariamente così identificati. Sopravvissuti anche a precedenti vicende giudiziarie, chiuse in tempi e circostanze diverse con patteggiamenti per il reato di favoreggiamento. Ma dentro Cosa nostra si tratta di condanne che poi contano. Hanno raccontato ai pm con i quali hanno patteggiato le condanne, 18 mesi, quello che potevano dire, le proprie responsabilità, confermato quanto già emergeva…poi il silenzio, tanto che in particolare di Tarantolo parlavano bene i boss ascoltati durante le intercettazioni, “non è un pezzo di fango”. E così Tarantolo passando fittiziamente le imprese ad altri, ha proseguito nel fare l’imprenditore “vecchio stampo”. Michele Mazzara addirittura pensava anche a far altro, voleva far realizzare, finanziandolo, un documentario per dimostrare che a Trapani “la mafia non esisteva”. E ci stava riuscendo al solito per le orecchie attente di qualche politico: aveva contattato un ex deputato di Forza Italia, Giuseppe Maurici – uno del quale il pentito Angelo Siino raccontò a suo tempo di aver salvato da morte certa – e cercava di coinvolgere l’allora sottosegretario all’Interno Antonio D’Alì. Mazzara intanto oltre che fare l’imprenditore agricolo si occupva di turismo, gestiva un albergo a San Vito Lo Cappo dove, soprattutto d’estate, non passava settimana in cui organizzava cene affollate e lontane da occhi indiscreti. Per tutti e due il pm Andrea Tarondo ha chiesto sorveglianza speciale per 4 anni e confische di beni superiori ai 50 milioni di euro. Le loro storie sono uno spaccato della storia trapanese. Una storia dove Cosa nostra primeggia, dove ha avuto dapprima la copertura di politici che negavano l’esistenza poi di politici che dicevano che era sconfiotta, di politici che preferiscono chiamare malandrini i mafiosi, e di altri che sostengono che Matteo Messina Denaro, il super boss latitante dal 1993, non è il primo dei problemi. Politici che dopo avere snobbato i guai dei beni confiscati che la mafia voleva riprendersi oggi si sorprendono se un bene confiscato spesso a fatica riesce a sopravvivere. I nomi? D’Alì, senatore, Damiano,  sindaco di Trapani, Errante sindaco di Castelvetrano, poi ci sono deputati come Paolo Ruggirello che in passato ha certamente cercato sostegno elettorale nelle mafia, politici che condannati sono stati eletti nei consigli comunali, come Giuseppe Ruggirello nella vita dirigente dell’agenzia delle Entrate, o ancora Santo Sacco o Lillo Giambalvo che a Castelvetrano frequentavano le aule consiliari e parlavano con i boss, o Pietro Pellerito, infermiere professionale e consigliere provinciale pronto a favorire qualche imprenditore mafioso. E l’elenco potrebbe continuare con il sindaco di Campobello Ciro Caravà che evitata una condanna in primo grado per mafia rischia la condanna a 7 anni per concussione. Tra gli assolti poi le condanne etiche e morali non dovrebbero mancare, Bartolo Pellegrino ex vice presidente della Regione, prescritto per il reato di corruzione, l’ex sindaco di Valderice, Camillo Iovino, assolto in secondo grado e che però con i parenti dei boss mafiosi ogni tanto parlava e dava consigli. In mezzo a questa “gentaglia” personaggi come Michele Mazzara, 54 anni, “è la classica figura dell’uomo ponte, tra la mafia e la politica”. Questa la conclusione del pm Andrea Tarondo nel procedimento per l’applicazione della sorveglianza speciale e la confisca dei beni dinanzi al Tribunale delle misure di prevenzione. Rapporti non datati nel tempo ma che il magistrato ha per così dire aggiornato alla luce delle recenti operazioni antimafia, quelle che in sostanza riguardano la ricerca del super latitante Matteo Messina Denaro. E’ il sostegno da lui, Michele Mazzara, dato a Cosa nostra “ad avergli permesso di fare una incredibile scalata imprenditoriale nel settore soprattutto edilizio e anche dell’attività agricola”. Due settori cruciali per la mafia “di grandissima rilevanza soprattutto per l’influenza sul tessuto sociale, che è in gran parte nelle campagne soprattutto, è agricolo, e che vede nel Michele Mazzara un referente mafioso di primissimo piano, una sorta di dominus da un punto di vista economico delle attività agricole, dell’attività quindi anche di ammasso, di acquisto, intermediazione di prodotti agricoli, quindi un soggetto di riferimento particolarmente importante”. In Cosa nostra contano anche le parentele e Michele Mazzara ne vanta una rilevante, quella con l’ex consigliere comunale del Psi di Trapani Francesco Orlando, uomo d’onore riservato della famiglia mafiosa di Trapani, condannato alla pena di anni otto di reclusione per il reato di associazione mafiosa, e che ha svolto una funzione di raccordo particolare col mondo della politica legata alla mafia. Mafia, politica, impresa e affari. Affari di “munnizza”. La gestione dei rifiuti è stato altro campo di interesse del mazzara e anche in questo ha trovato precise sponde, “come quella con il direttore dell’Ato Rifiuti Salvatore Alestra”. Tutto questo tradotto in poche parole, ossia con “la capacità di acquisire il controllo diretto e indiretto sul territorio di attività economiche, di concessioni, ma anche di contributi pubblici. C’è una mafia per così dire “operativa”, militare, capace di uccidere e far stragi, ma c’è anche la mafia organizzata per penetrare il tessuto economico, quella mafia che convive con la politica e che foraggia la corruzione. La Cosa nostra “segreta” di Matteo Messina Denaro, fatta da colletti bianchi, da uomini d’onore affiliati senza tanti riti e senza punciute. Un altro dei punti di riferimento di questa strategia tra mafia ed economia la Procura di Trapani lo ha individuato nell’imprenditore Vito Tarantolo. Grazie a imprenditori del calibro di Tarantolo sul finire degli anni 80 e i primi degli anni ’90, Cosa Nostra trapanese è passata da un ruolo quasi secondario di accettazione, di imposizione, di guardianìa, di assunzioni, a quello di controllo egemonico con lo sviluppo della strategia “corleonese” affidata al capo mafia Vincenzo Virga che grazie a Tarantolo “pretenderà sempre di più di controllare direttamente l’attività economica e i lavori pubblici”. “E’ il caso, per esempio, della famosa galleria di Favignana e il relativo appalto”. Ma al centro degli interessi c’era anche l’imprenditoria privata. Gli anni 80/90 furono gli anni del “sacco trapanese”, dello sviluppo urbanistico, disordinato dal punto di vista ambientale, ma “ordinato per le regole feree imposte da Cosa nostra”. “Le decisioni – ha rimarcato il pm – avvenivano nell’ambito dei comitati di affari trapanesi dove siedevano mafiosi, politici e imprenditori e si traducevano in scelte amministrative, sotto il controllo di un regime mafioso, con una cinghia di trasmissione che funzionava perfettamente fra decisioni mafiose, corruttela e gestione degli appalti pubblici, che determinava attraverso i sistemi di gara da attuarsi e l’impresa che doveva aggiudicarsi i lavori, e se non ci si poteva mettere d’accordo prima si prendeva la busta del soggetto che doveva vincere, la si cambiava, la si mutava inserendo il valore e l’offerta che consentiva l’aggiudicazione”. Una mafia prevaricatrice “che non consentiva uno sviluppo imprenditoriale secondo le regole della libera concorrenza, ma che imponeva a tutti i soggetti imprenditoriali di inserirsi nell’ambito di un circuito mafioso che contemplava ovviamente anche una parte di utile riservato ai soggetti pubblici di riferimento, ai soggetti politici, ai pubblici funzionari che venivano autonomamente corrotti…e alla mafia si pagava la quota associativa, niente pizzo, ma una quota di partecipazione per accedere al rapporto sinergico tra mafia ed appalti, tra mafia e lavori pubblici”.

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