A fari spenti verso la verità. Borsellino quater, nuovi elementi su trattativa Stato-mafia
All’indomani della deposizione del Presidente della Repubblica davanti alla Corte d’Assise di Palermo, in trasferta a Roma per raccogliere le parole di Napolitano nell’ambito del processo sulla trattativa Stato – mafia, i commenti autorevoli sulla portata di quanto verbalizzato al Quirinale si sono sprecati sui diversi media. Non vogliamo aggiungerci alle diverse scuole di pensiero che fin qui si sono contrapposte, ma è di tutta evidenza che la tesi accusatoria della Procura di Palermo esce rafforzata di molto dopo la ricostruzione operata da Napolitano. Il Presidente ha dichiarato che fu chiaro allora alle massime cariche dello Stato dell’epoca (Scalfaro, Napolitano, Spadolini) come fosse in atto un tentativo di ricatto ai danni delle istituzioni, portato avanti con le stragi: «La valutazione comune alle autorità istituzionali in generale e di Governo in particolare, fu che si trattava di nuovi sussulti di una strategia stragista dell’ala più aggressiva della mafia, si parlava allora in modo particolare dei corleonesi, e in realtà quegli attentati, che poi colpirono edifici di particolare valore religioso, artistico e così via, si susseguirono secondo una logica che apparve unica e incalzante, per mettere i pubblici poteri di fronte a degli aut – aut, perché questi aut – aut potessero avere per sbocco una richiesta di alleggerimento delle misure soprattutto di custodia in carcere dei mafiosi o potessero avere per sbocco la destabilizzazione politico – istituzionale del paese». Parole inequivocabili che spazzano via di per sé le accuse pretestuose rivolte alla Procura di Palermo da quando il processo sulla trattativa è stato aperto. Se le autorità della Repubblica erano consapevoli di un tentativo di ricatto in atto, è compito della magistratura accertarne i profili e sanzionare eventuali responsabilità di quanti pensarono di condizionare l’operato delle istituzioni, utilizzando lo strumento della violenza stragista.
Il ricatto
Se dunque i fatti saranno provati e le responsabilità ricostruire in capo agli imputati, sarà integrata la fattispecie penale prevista dall’art. 338 del codice penale (“Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario”) e non quella di trattativa, un reato inesistente e una figura giuridica in quanto tale non prevista nella nostra legislazione. Napolitano rispondendo alle domande del pm Nino Di Matteo parla proprio di “ricatto o addirittura pressione a scopo destabilizzante di tutto il sistema” e del resto che la trattativa ci fu è un dato di fatto, già provato in un aula di tribunale italiano a Firenze e strappa solo qualche sorriso amaro sentirla accostare ancora a termini come “cosiddetta”, “presunta” o “famigerata”. Il processo sulla trattativa prende quindi un iter del tutto inatteso, prima della deposizione di Napolitano, perché le parole del Presidente offrono una sponda inattesa all’ipotesi accusatoria. Una sponda sicuramente imprevedibile, se solo si risale ai tempi e alle asprezze del conflitto di attribuzione sollevato davanti alla Corte Costituzionale dalla stessa Presidenza della Repubblica nei confronti della Procura di Palermo. Una sponda da non enfatizzare oltremisura viste le ombre non ancora fugate, tra cui la mancata richiesta di chiarimenti da parte di Napolitano al suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, poi scomparso, perché spiegasse gli “indicibili accordi” di cui sarebbe stato testimone tra il 1989 e il 1993. Indicibili accordi evocati nella lettera di dimissioni inviata al Quirinale da D’Ambrosio, proprio mentre infuriava la polemica per le telefonate tra lui e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, all’origine del conflitto tra Quirinale e Procura.
Un lungo iter processuale
In attesa di nuovi sviluppi, l’attenzione si sposta doverosamente su un altro processo, legato a filo doppio a quello sulla trattativa, eppure snobbato oltre modo da tv e giornali. Stiamo parlando del Borsellino quater in corso di svolgimento a Caltanissetta. Un processo che giunge oggi, a ventidue anni dalla strage di via D’Amelio e dopo che, tra il 1996 e il 2008, sono stati celebrati quattordici procedimenti aventi ad oggetto i medesimi fatti, di cui ben quattro davanti alla suprema Corte di Cassazione. Un processo, il Borsellino quater, chiamato a fare luce sui depistaggi relativi all’uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta. Un processo, il Borsellino quater, che dovrebbe spiegare cosa, ma soprattutto chi, spinse Cosa Nostra, in particolare i fratelli Graviano, ad accelerare i tempi e a mettere in atto una strage che, dopo quella di Capaci, si sarebbe rivelata essere l’inizio della fine per l’ala stragista dei corleonesi, che furono negli anni successivi, tutti assicurati alle patrie galere. A differenza di Bernardo Provenzano che godeva di protezioni indicibili fino a qualche anno fa e oggi pure finite sotto i riflettori processuali. Un processo, il Borsellino quater, che tenta di fare luce sul ruolo giocato dal questore Arnaldo La Barbera e dal gruppo “Falcone – Borsellino” della Polizia di Stato, da lui guidato, nella costruzione a tavolino di un falso collaboratore di giustizia come Vincenzo Scarantino, un falso “pentito” da dare in pasto all’opinione pubblica e alla macchina processuale. La Barbera oggi non c’è più ma tre dei suoi uomini sono indagati proprio a Caltanissetta con l’ipotesi che abbiano spinto non solo Scarantino, ma anche Salvatore Candura e Francesco Andriotta a dichiarare il falso: i tre sono Mario Bo, dirigente della divisione anticrimine della Questura di Gorizia, Vincenzo Ricciardi, ex questore di Bergamo ora in pensione e Salvatore La Barbera, in forza alla Criminalpol di Roma e quando, lo scorso anno sono stati chiamati in aula, i primi due si sono avvalsi della facoltà di non rispondere e il terzo non si è neppure presentato. L’ingresso di Gaspare Spatuzza nel complicato iter processuale riguardante la strage Borsellino ha avuto sicuramente un effetto dirompente, perché ha consentito di ricostruire la dinamica dell’attentato in modo diverso, offrendo agli inquirenti come sigillo inoppugnabile l’ammissione della propria colpevolezza.
Silenzio, parla lo Stato?
Ora il Borsellino quater entra nel vivo e si possono cogliere al meglio le connessioni con il processo sulla trattativa. Infatti, se verranno provati moventi e dinamiche della strage di via D’Amelio si potrà avere un quadro maggiormente delineato anche per quanto riguarda la trattativa, stabilendo una volta per tutte le ragioni dell’accelerazione impressa alla decisione di eliminare, dopo Falcone, anche Borsellino, nonostante la prevedibilissima reazione dello Stato. Purtroppo non hanno aiutato le ricostruzioni offerte per oltre un ventennio da parte dei rappresentanti delle istituzioni dell’epoca che sono state, a dir poco disarmanti, per usare un eufemismo e non voler ricorrere a parole come reticenza e omissione. Novità potrebbero però venire già dalla prossima settimana. Infatti, la Corte d’assise di Caltanissetta sarà a Roma per ascoltare l’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, sempre che le condizioni di salute precaria lo permettano, l’ex presidente della Commissione antimafia Luciano Violante e l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso. Insieme a questi due, è prevista anche la deposizione dei vecchi responsabili del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Nicolò Amato e il suo successore, Adalberto Capriotti: una sostituzione che, secondo alcune ricostruzione, sarebbe stata voluta proprio nell’ottica della normalizzazione del Dap. Conso, Amato e Capriotti saranno chiamati presumibilmente a ricostruire le fasi concitate dell’introduzione dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, quello che prevede il “carcere duro” per i condannati per mafia, ma soprattutto il periodo relativo alle revoche stabilite successivamente dei provvedimenti restrittivi, quando, per usare l’espressione di Napolitano, lo Stato era sotto “ricatto”. Le loro decisioni politiche in tema di carcere duro furono determinate liberamente, come sempre sostenuto da Conso o prevalsero altre motivazioni? E Violante vorrà spiegare. una volta per tutte. le pressioni ricevute dagli uomini del ROS dei carabinieri per fargli incontrare l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, di cui ha parlato soltanto a distanza di due decenni? Questi uomini che hanno rappresentato lo Stato in quegli anni difficili sono chiamati ora a raccontare quello che sanno su quel periodo. Sfrutteranno l’occasione offerta loro dalla Corte del Borsellino quater o verranno meno al giuramento di fedeltà alla Repubblica pronunciato allora e ancora valido, sottraendosi al loro dovere nei confronti della verità e della memoria delle vittime? Ancora qualche giorno e lo sapremo. Forse.
Paolo Borsellino, 22 anni senza verità
Via D’Amelio vista dalla parte sbagliata
* Lorenzo Frigerio, coordinatore nazionale della Fondazione Libera Informazione
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