Lampedusa: uno scoglio e due festival, tante voci, nessuna voce
Il parroco Zambito: “I Lampedusani non hanno voce in capitolo”/// – Nel marasma di voci, Lampedusa non ne ha. C’è confusione nel più tristemente noto e discusso scoglio del Mediterraneo, a poche ore dal triste “memorandum”del 3 ottobre. Lo scorso anno un’imbarcazione colma di migranti si ribaltò a mezzo miglio dall’isola dei Conigli: 366 i morti accertati. La commemorazione diventa oggetto di discussione, ampia e ragionata, sui diversi modi di narrazione dell’isola, per sottrarla alla babele di voci “altre” e restituirla ai veri protagonisti del dibattito, i Lampedusani. Perché raccontare/ascoltare Lampedusa non implica necessariamente imbattersi in storie di strazio e naufragio, corpi galleggianti o distesi in mezzo al campo da calcio giù al Porto Nuovo in attesa di acqua dolce e conforto. Lampedusa è soprattutto quotidianità di un microcosmo di poco più di seimila individui, storie di normalità oppure devianza, all’interno del quale il discorso sull’emergenza migratoria occupa solo una piccola parte. Esiste, pesa, ma non ne esaurisce il racconto.
L’isola. Gli ultimi scampoli della lunga estate lampedusana che aprirà le porte a un sempre mite inverno e a una diversa ciclicità e percezione delle cose, monta il dibattito, soprattutto tra i pochi turisti rimasti, volontari di associazioni non governative e altri attivisti, in merito all’ormai prossima riapertura del centro d’accoglienza temporanea.
“Tutto questo sistema non ha nulla d’accogliente. Riaprire un centro di detenzione alimenterà affari sulla pelle dei più deboli”, oppure “Ben vengano i migranti, ma se io mi rompo una gamba devono portami a Palermo in elicottero”: sono questi i due poli del dibattito tra Lampedusani. Da un lato una sentita partecipazione al dolore altrui, proveniente soprattutto dai più giovani, facenti capo ad organizzazioni extra partitiche, fautrici di un discorso colto e ragionato ma forse povero di prospettive di sviluppo, dall’altra il pragmatismo di chi pone gl’interessi e bisogni primari della comunità in cima alle priorità. Tutto ciò mentre il furgoncino del partito di Matteo Salvini s’aggira tra i vicoli del centro a far proseliti.
I festival. Due, uno di seguito all’altro. Il primo “Lampedusa in festival” alla sesta edizione e terminato martedì, è organizzato dal collettivo Askavusa. Un manipolo di giovani attivisti che, senza troppi giri di parole, attraverso un’intensa attività laboratoriale e artistica, si propone di liberare l’isola dalle logiche del neocolonialismo culturale, dopo quello meramente economico, per restituirla ad un destino di pesca e turismo, vocazioni naturali di questo scoglio in mezzo al mare. La denuncia del militarismo strisciante passa dall’opposizione all’installazione di due nuovi radar e dalla richiesta di rilevazioni serie sulle onde elettromagnetiche sia a Lampedusa che a Linosa. E domani i ragazzi del collettivo daranno vita a una vera e propria battaglia civile e partecipazione ritrovandosi alle 11.30 in Aeroporto per manifestare tutto il dissenso “contro queste scelte economiche che generano sempre più stragi, sia in mare con i naufragi che attraverso bombardamenti e sfruttamento di intere aree del pianeta, e contro la riduzione di Lampedusa a una piattaforma militare”. Uno dei leader della protesta è il cantautore Giacomo Sferlazzo, nipote di un capitano d’imbarcazione e voce resistente:
“Da Lampedusa sono andati via le spugne, gli alberi e i pesci, molti pesci. È andata via la magia. Il suono dell’acqua è travolto dal rombo degli aerei. Non è andata via l’energia del mare, delle persone, sta a noi tirarla fuori, riportare alla luce lo spirito del luogo: un’isola di salvezza, di pace. Non può essere un’isola militarizzata”. Il collettivo gestisce anche “PortoM”, luogo di memoria in cui sono esposti centinaia di oggetti appartenuti ai migranti ma che sarebbero stati distrutti perché ritenuti spazzatura o, addirittura, corpo di reato.
Poi c’è “Sabir. Festival diffuso delle culture mediterranee”, organizzato da Comune, Arci e Comitato 3 Ottobre, iniziato ieri e che si concluderà il 5. Intense giornate d’incontri, dibattiti e laboratori sul ruolo dell’isola come ponte tra i popoli nel cuore del Mediterraneo. Due i temi al centro del dibattito: migrazioni, partecipazione e democrazia euro mediterranea. Ieri sera, in piazza Castello è toccato alla sindaca di Lampedusa, Giusi Nicolini, dare il benvenuto ai partecipanti, al termine dello spettacolo teatrale diretto da Ascanio Celestini, coordinatore di un lungo laboratorio teatrale:
“Lo scopo di Sabir è conoscere, esplorare Lampedusa in tutte le sue facce, incontrare le persone, parlare e fare di quest’isola finalmente il centro da cui far partire un messaggio – ha spiegato la prima cittadina- qui si arriva da diverse parti del Mediterraneo per discutere non solo d’immigrazione, ma di beni comuni, sostenibilità, di un futuro diverso. Nessuno conosce bene l’anima di quest’isola. Nell’immaginario collettivo per troppi anni è stata l’isola invasa dai clandestini e il turismo di massa, quello mordi e fuggi, si è allontanato dalla vera anima del luogo. Ricominciare da lì. Abbiamo il sogno di un posto in cui la speranza la costruiamo ogni giorno e non la portano i barconi carichi di morti, di far diventare Lampedusa come tappa di un viaggio, viaggi normali. Sogniamo che possano cambiare le norme sull’immigrazione e soprattutto il destino delle aree di confine, delle isole come la nostra, italiani come noi condannati a un ruolo marginale”.
Ma è il sacerdote Domenico Zambito, parroco della Chiesa madre, il vero e proprio polo di raccordo tra le diverse voci, istituzionale e antagonista, capace di riportare pensieri vaganti e migranti sulle banchine della terraferma, individuando un comune terreno di lotta e impegno:
“Nessun luogo così esiguo è attraversato da un fenomeno così grande con un effetto di rimbombo mediatico così enorme. In ragione dell’epoca mediatica che viviamo ha un risalto, un rimbombo che quasi stona certamente i Lampedusani che in tutto questo non hanno voce in capitolo. Si corre il rischio di un uso strumentale sia della funzione di Lampedusa come spazio d’eccezione, dove il potere dei governi di turno sospende l’ordine e dimostra la sua incapacità di governare un fenomeno così abnorme”.
Interessi politici e mediatici utilizzerebbero l’isola come metro di misura, delega, deresponsabilizzazione. Così uno scoglio in mezzo al mare si trova coinvolto senza capacità di dire la propria anche in ragione della difficoltà di elaborare una propria opinione. Due festival non bastano, perché sfiorano appena Lampedusa, dove le vite scorrono per altri 8 mesi l’anno, legate a ciclicità diverse, al verbo della natura o all’arrivo di derrate dal continente. In questa lingua di terra invasa da divise ma senza guerre, dove i bambini muoiono ma non possono nascere, della quale si parla ma che non ha voce, andrà così in scena il primo, mesto anniversario del 3 ottobre.
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