Vendere i beni confiscati alle mafie?
No, farne simboli di riscatto e inclusione
Misure straordinarie. Così il Ministro della Difesa La Russa,
intervistato da Felice Cavallaro sul Corriere della Sera di ieri, aveva
definito le armi per contrastare le mafie. Una più facile applicazione
del 41 bis, assicura innanzitutto il ministro. E poi la semplificazione
delle procedure per la confisca di un bene. Ma non a scopo di assegnarlo
alla comunità e vederlo riconquistato dalla collettività. La Russa
pensa a «trasformare in denaro» i beni sottratti alle mafie. Un autogol.
Come se non fosse abbastanza chiaro che una messa in vendita di tali
beni potrebbe farli ritornare ai precedenti proprietari. Ne è convinto
Avviso Pubblico, associazione che riunisce gli Enti locali e Regioni
per la formazione civile contro le mafie. Noi di Libera Informazione
ospitiamo la lettera che il Presidente, Andrea Campinoti, ha inviato
al Corriere e a molti altri quotidiani e discutiamo dell’argomento con
Pierpaolo Romani, portavoce dello stesso Avviso Pubblico.
Dottor Romani, come valuta Avviso Pubblico, le dichiarazioni di La
Russa apparse sul Corriere di ieri?
Innanzitutto
non è compito del ministro della Difesa puntualizzare su questi argomenti.
Detto ciò, la proposta di mettere in vendita anziché riutilizzare
i beni confiscati alle mafie rappresenterebbe un notevole passo indietro
nella lotta alla criminalità organizzata.
I beni possano ritornare facilmente in mano ai mafiosi, in questo
modo?
Sicuramente uno dei motivi per cui siamo contrari alle vendite è
che potrebbero essere riacquistati nuovamente dagli stessi mafiosi,
magari tramite un prestanome. Sarebbe un metodo indiretto di ricondurli
nuovamente ai mafiosi, un controsenso per uno Stato che dovrebbe esattamente
fare il contrario: restituire alla collettività.
La visione di La Russa ipotizzerebbe un utilizzo differente dell’attuale normativa in materia
di beni confiscati che risulta finalizzata
al riutilizzo, non trova?
Avviso Pubblico pensa che verrebbe meno la ratio legis che è sottesa alla
legge 109/96. Una legge che è stata voluta dall’associazione Libera
che ha raccolto, per averla, più di un milione di firme. E che prevede
il riutilizzo a fini sociali dei beni sottratti ai mafiosi. Venderli
significherebbe soffocare sul nascere qualsiasi progettualità che permetta
di trasformare un bene della criminalità in una possibilità di sviluppo
economico e civile.
La necessità di affinare il metodo di confisca e assegnazione di
un bene porta direttamente alle parole del ministro Maroni e la “famigerata”
Agenzia per i beni confiscati, pensa si riuscirà a creare in tempi
brevi?
Il ministro Maroni ha spesso dichiarato di essere favorevole alla
costituzione di una Agenzia che si occupi di gestire e assegnare i beni
confiscati. Anche dieci giorni fa in Sicilia, all’inaugurazione
di un centro agrituristico sui terreni dei boss e dopo i fatti di Castelvolturno
ha ribadito la sua volontà di portare avanti il progetto. Siamo fiduciosi.
Sarebbe accogliere una richiesta che la scorsa Commissione Antimafia
aveva puntualmente sottolineato. Non sola in questa battaglia. Già
nel 2006 il documento conclusivo di Contromafie, il maggior raduno nazionale
della società civile impegnata contro le mafie, lo poneva tra gli aspetti
salienti. Certo qualche elemento è presente nei disegni di leggi discussi
alle Camere, ma la vera discriminante sarebbe la creazione dell’agenzia.
Tuttavia sembra sempre esserci un colpevole ritardo da parte delle
Istituzioni nella composizioni di organi di contrasto, come nel caso
della Commissione Antimafia, non ancora insediatasi operativamente…
Penso che la Commissione non ancora insediata sia figlia di un caos
politico che preferisce mostrarsi attivo sui temi della sicurezza che
affrontare il discorso antimafia. La precedenza data al tema della sicurezza, la mancanza forte
di un dialogo tra maggioranza e opposizione e la situazione critica
dell’economia hanno enfatizzato questa messa in disparte e la lotta
alla mafia risente, dunque, di pesanti ritardi.
Ritornando al tema della confische, il ministro La Russa parla di
vendita dei beni ma anche alcune forze di polizia potranno utilizzare
i beni come caserme. ..
Noi nella risposta al ministro citiamo la caserma di Platì (Reggio
Calabria) dei Carabinieri, sorta dentro a un bene confiscato. La Guarda
di Finanza a Corleone ha la sede in una villa di Riina. Grazie alla
legge 109/96 anche alcune forze dell’ordine hanno una struttura. Si
tratta anche in questo caso di un bene riutilizzato per la collettività. Un segno importante in un periodo in cui
sono stati effettuati anche pesanti tagli alle forze dell’ordine. Tramite
i beni confiscati si ha dunque una forte risorsa anche in questo ambito
istituzionale.
Utilizzare un bene confiscato per progetti sociali in che altro modo
può ostacolare le mafie? Può l’inclusione sociale rappresentare una
valida alternativa al crimine organizzato?
Penso che noi come rete di Enti Locali possiamo essere testimoni
nei confronti del ministro del fatto che non solo la sua proposta mostra
diversi limiti, ma della bontà della sceltà del riuso sociale dei
beni. Grazie alla legge 109/96 si sono messi a punto diversi progetti
educativi e anche socio-assistenziali . Da questo, dalle buone prassi,
si può evincere la grande forza, simbolica ma anche concreta della
restituzione alla società di un bene confiscato alla mafia. Utilizzare
una struttura confiscata per dare spazio a progetti di recupero di tossicodipendenti
sottrae clientela alle mafie e promuove progetti di incusione sociali
alternativi a quella realtà. Dare stabilità, lavoro, tranquillità sono obiettivi fondamentali
per creare progetti diametralmente opposti a quelli criminali. Includere
socialmente, evitare l’emarginazione e promuovere progetti socio-assistenziali,
sono queste le carte vincenti per riaffermare il diritto e la collettività
sulla prevaricazione.
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